*Presidente F.I.M.I. Federazione Industria Musicale Italiana. Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Nel “controcorrente” di mercoledì 7 Febbraio su Il Sole 24 ore non è tanto la banale e populistica posizione anticopyright a soprendere, ma la la totale assenza di qualsiasi conoscenza, da parte dell‘estensore dell‘articolo, dei meccanismi di gestione dei diritti e perfino dei soggetti che producono contenuti.
Si confonde SIAE, che è una società degli autori ed editori, che rappresenta un monopolio ex-lege, con le case discografiche, che sono invece “clienti” di SIAE, in quanto da essa acquistano diritti e che operano nel libero mercato in competizione tra loro (/esistono più major musicali attive in Italia rispetto alle società di telefonia…/). Si confonde l‘associazione dell‘industria discografica americana RIAA con la stessa SIAE, e quindi produttori con autori ( /come se FIEG e FNSI fossero la stessa cosa ad esempio/) Mi chiedo, ma come è possibile un serio dibattito, se mancano le basi più elementari?
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Detto questo vale la pena di citare due recenti dati presentati al Senato USA il 30 gennaio scorso (_ Copyright Industries in the U.S. Economy: The 2006 Report_) e che confermano quanto rilevante sia l‘industria della proprietà intellettuale per l‘economia americana. Il core business delle industrie che producono copyright ha prodotto solo nel 2005, 819 miliardi di dollari, ovvero il 6,56 % del PIL degli Stati Uniti. Le industrie che producono copyright hanno contribuito per il 12,96% alla crescita dell‘intera economia americana e che tale contributo è stato il doppio del valore dello stesso comparto (6,56%) sull‘intero PIL
Molto interessante inoltre, le industrie che producono copyright negli Stati Uniti hanno assorbito l‘ 8,49% in più di lavoratori nel 2005 con un incremento della retribuzione che è stato all‘incirca del 40 % superiore alla retribuzione media di un lavoratore negli Stati Uniti.
Per non parlare del contributo all‘export di tali industrie, che ormai ha raggiunto i 110.8 miliardi di dollari, superando molte industrie “tradizionali”.
E l‘Italia ? Il nostro Paese sta perdendo il treno dell‘innovazione e le industrie creative che producono contenuti sono lasciate al proprio destino, proprio in una fase strategica essenziale, dove le nuove tecnologie consentirebbero, ad esempio, all‘industria musicale, di essere competitiva con l‘offerta globale e conquistare market share grazie alle nuove reti digitali. Oppure dove sarebbe necessario attrarre investimenti dall‘estero favorendo condizioni ideali per lo sviluppo di contenuti creativi.
Ma tutto ciò sembra lontano mille miglia da chi deve determinare le strategie del Paese con riferimento ai contenuti creativi, vero asset del futuro, come dimostrano i dati citati nel caso USA. Cosa troviamo invece in prima pagina sul maggiore quotidiano economico? La proposta di abolire il copyright, tramite magari una “lenzuolata” del Ministro delle Attività Produttive. Non è necessario il lenzuolo, perchè sull‘industria della creatività da tempo il nostro Paese ha calato un triste sudario.
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