L’aggravarsi della crisi in Ucraina e le sanzioni bidirezionali (dell’Occidente verso la Russia e viceversa) stanno iniziando a sortire i loro effetti non solo su Mosca, ma anche sulle aziende italiane attive in Russia. Dal lato dei Paesi dello schieramento occidentale vigono i divieti di: formalizzare contratti e/o esportare prodotti, operare attraverso piattaforme interazionali di pagamento (Swift) rispetto a un gruppo di banche e interagire con soggetti pubblici/privati sanzionati.
Le sanzioni in vigore attualmente nei confronti della Russia riguardano: armamenti, finanziamenti pubblici, telecomunicazioni, petrolio e gas, aviazione e spazio, siderurgia, lusso, enti e istituzioni pubbliche, privati. Da parte russa, oltre al divieto di import/export di merci e materie prime (“Ordine 100”), sono attivi la Commissione governativa per il controllo degli investimenti esteri, l’obbligo di dare priorità ai soggetti russi (Legge 233) e quello di convertire l’80% degli introiti in valuta estera in rubli.
Le aziende italiane stanno lasciando la Russia?
A parte alcuni colossi, come, la maggior parte delle aziende italiane (a eccezione di quelle operanti nel settore energetico e dei servizi, come Eni e Generali), non si è mossa dalla Russia: il 69%, contro il 42% del resto del mondo. Lo rileva uno studio internazionale, che ha monitorato le risposte di oltre 1.000 aziende, e rielaborati per quanto concerne la situazione delle 480 imprese italiane dalla Livolsi & Partners, rappresentante esclusivo in Italia della Zona economica speciale (ZES) di Stupino, vicino a Mosca, e in Cina dell’Associazione degli industriali della regione di Zhejiang e del parco industriale sino-italiano di Deqing.
La ricerca evidenzia anche che ha continuato a lavorare in Russia il 36% delle aziende italiane (contro il 21% a livello mondo mondo), prendendo tempo, rinviando investimenti, ma seguitando a fare affari (20% contro 12%), ridimensionando i collocamenti e riducendo al minimo le operazioni commerciali (13% contro 9%). Solo il 13% delle imprese italiane attive in Russia ha bloccato l’attività ed è uscita dal mercato, contro il 26% del resto del mondo.
L’impatto della crisi in Ucraina sull’import/export tra Italia e Russia
L’import/export tra Italia e Federazione russa l’anno scorso era tornato ai livelli del 2013, precedenti all’annessione della Crimea da parte di Mosca, che aveva innescato all’epoca altre sanzioni. Nel primo trimestre 2022 rispetto a quello del 2021, la crisi in Ucraina ha determinato una diminuzione dell’export tra Italia e Russia di circa il 30%, per una perdita di quasi 2 miliardi di euro.
Le 480 imprese italiane attive in Russia generano un export di circa 8 miliardi di euro. L’Italia è il settimo paese fornitore della Russia per una quota di mercato del 4,1%, mentre quella russa è la quattordicesima piazza di destinazione del nostro export, pari all’1,5% del valore nazionale. Quasi 30 aziende, equivalenti al 6% del totale, sono presenti con impianti produttivi stabili: Todini Costruzioni, Barilla, Pirelli, Marcegaglia, Leonardo, Tecnimont, Coeclerici, Costa Crociere, Enel, Eni, Danieli, Parmalat, Mapei, Menarini, Salini, Perfetti, Angelini, Alfasigma, Chiesi, Kedrion, Italfarmaco, Recordati, Zambon, Dompé. Sono attive anche circa 150 pmi (il 31% del totale), con cooperazioni produttive o attraverso joint venture. In ambito commerciale circa 300 imprese sono operative attraverso uffici di rappresentanza, corrispondenti al 62% delle imprese complessive.
Quali prospettive per le aziende italiane in Russia?
Secondo Alberto Conforti, managing director e responsabile del dipartimento internazionalizzazione della Livolsi & Partners, “le grandi imprese che già producono in Russia, avranno un accesso facilitato al mercato quali parte del cluster di aziende russe fornitrice di prodotti, ma potrebbero avere problemi a fare rientrare in Italia i propri profitti. Le medie e piccole imprese, presenti con joint venture con partner russi, e con produzione in parte in Italia e completamento in Russia, risentiranno del costo del traporti per la parte realizzata Italia, e in prospettiva commerciale i profitti si ridurranno a causa della svalutazione del rublo. In difficoltà le medio e piccole imprese eminentemente commerciali, penalizzate dai prezzi della logistica e della svalutazione del rublo”.
A suo avviso, le imprese basate in Russia probabilmente proseguiranno normalmente le attività, ma dovranno sottostare all’obbligo di “utilizzare unicamente il rublo come valuta e all’impossibilità alla data di convertire rubli per il rientro dei profitti sia il mantenimento del fatturato o in leggero calo. Per quelle che decidono di sospendere le attività, e che avranno l’obbligo della salvaguardia dell’occupazione con gli oneri accessori previsti, ci sarà una riduzione sensibile del fatturato e dei prodotti. Per le imprese residenti che lasciano il Paese, è attualmente in discussione la procedura di nazionalizzazione, non ancora approvata dal Governo, che presume la cessione degli asset e della forza lavoro a una società russa che abbia contiguità produttiva con l’impresa straniera, attraverso l’attivazione di una procedura definita bancarotta intenzionale, che include sanzioni amministrative e penali verso gli azionisti e i manager con posizioni di responsabilità”.
Ubaldo Livolsi, fondatore della Livolsi & Partners, prevede “una forte riduzione dell’export, soprattutto da parte di quelle pmi che non hanno una presenza strutturata in Russia e hanno privilegiato il trading in settore tipici del made in Italy rispetto alla localizzazione commerciale/produttiva. La riduzione dell’export deriva dall’aumento dei prezzi delle importazioni per la Russia, dai costi dei trasporti, dalla svalutazione del rublo e dalla difficoltà di avere garanzie bancarie a supporto dei contratti (lettere di credito). L’impatto coinvolgerà anche le filiere associate alle imprese esportatrici che soffriranno di un calo dei contratti, mentre le aziende che hanno un fatturato verso la Russia significativo avranno problemi a riposizionarsi in tempi rapidi”.