di Matteo Vitali
Pandemia, conflitti internazionali, inflazione e rialzo dei tassi. L’ultimo biennio non è sicuramente stato dei migliori in termini di contesto per la crescita economica sia internazionale che nel nostro paese. Ma mentre sui mass media le parole ricorrenti sono guerra, crisi ed emergenza, esiste qualche voce fuori dal coro che in modo ragionevole e senza allarmismo, pur in uno scenario estremamente critico, mette in luce la strada verso l’uscita dallo scenario difficile e gli strumenti con cui le aziende e le famiglie italiane possono fronteggiare la contingenza. Una di queste voci è Marco Fortis, professore di Economia Internazionale, delle Istituzioni e dello Sviluppo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, direttore della Fondazione Edison e già consigliere economico dei presidenti del Consiglio Mario Monti e Matteo Renzi.
Professore, qual è la sua visione dell’attuale scenario nazionale alla luce del contesto in cui stiamo vivendo?
”Per avere una giusta visione prospettica dobbiamo innanzitutto riconoscere che il nostro paese ha vissuto una stagione di straordinaria ripresa. Inoltre, pur considerando il calo del Pil nel primo trimestre del 2022 rispetto al quarto trimestre dell’anno scorso, l’Italia si posiziona tra i paesi che crescono di più nel mondo, davanti a Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Germania. Avevamo quasi completamente recuperato il terreno perso nei due anni di emergenza sanitaria, naturalmente la battuta d’arresto del primo trimestre di quest’anno allungherà i tempi. In ogni caso è un dato di fatto che l’industria italiana, grazie a una serie di riforme finalmente incisive come Industria 4.0, è riuscita a tornare ai vertici tra i paesi avanzati per crescita e addirittura in testa in termini di produttività. Come conseguenza abbiamo sostenuto un primo trimestre che tutti davano per drammatico.
Gli effetti del confitto bellico però si stanno facendo sentire…
A partire da marzo ci troviamo davanti a un nuovo scenario. Uno scenario totalmente imprevedibile, sia dal punto di vista dei tempi che dell’esito finale. Se il conflitto si risolvesse in tempi rapidi, magari con un accordo negoziale, una serie di elementi che in questo momento stanno minacciando non solo il bilancio italiano ma anche quello europeo, sparirebbero o per lo meno ne verrebbero sensibilmente ridimensionati. Mi riferisco ad esempio all’inflazione, che allo stato attuale sta erodendo in maniera importante il potere d’acquisto delle famiglie, che come sappiamo con i loro consumi muovono due terzi del Pil. Se il conflitto modifica delle abitudini di vita dei cittadini italiani ed europei. Consideriamo che al confronto l’austerity dei primi anni ’70 è stata molto più gestibile, perché sono state le nostre istituzioni a decidere quando non far circolare le auto e preservare le fonti energetiche. Oggi abbiamo un’economia molto più complessa, in cui anche i nodi tecnologicamente più avanzati, come ad esempio i server aziendali o le infrastrutture per la comunicazione mobile, necessitano di grandissime quantità di energia, e non possono essere spenti”.
Considerando queste criticità, quali sono gli errori assolutamente da non fare?
Il primo rischio che vedo è che tanti dilettanti e comprimari si mettano a spiegare al presidente Mario Draghi cosa deve fare. Draghi sta semplicemente guidando una buona nave, che è l’economia italiana attuale, molto diversa da quella di 10 anni fa perché esce da riforme importanti e vive un momento in cui il potere d’acquisto delle famiglie è aumentato, anche se nessuno l’ha mai ammesso o scritto per ragioni soprattutto politiche, anche grazie a un importante susseguirsi di azioni di welfare.
Un secondo grande errore è pensare che siamo davanti a una catastrofe. Dobbiamo sicuramente fronteggiare una serie di potenziali rischi molto seri, diverso però è dire che oggi abbiamo un’economia distrutta e famiglie che non sanno come pagare le bollette. Stiamo navigando a vista in un mare in tempesta, ma non stiamo colando a picco. Un terzo grande errore sarebbe pensare di dover intervenire ora con grandi riforme strutturali. Con lo stesso sistema economico di oggi l’anno scorso abbiamo registrato una crescita del Pil del 6,6%. Vuol dire che quest’anno, se non ci fosse stata la guerra, saremmo cresciuti almeno del 4%. Cifre che non vedevamo da anni. Non facciamoci dunque prendere dal panico. Non sappiamo quanto durerà la guerra, bisogna procedere settimana per settimana, se non giorno per giorno. Le parti sociali dovrebbero avere la forza di attendere e valutare solo dal 2023 eventuali nuovi interventi a lungo termine. Questo è il momento di azioni tattiche e temporanee.
Esistono settori che pur in questo contesto stanno registrando o possono aspirare a una crescita?
Sicuramente anche in questi momenti esistono degli elementi di forza nell’economia italiana. Il primo è sicuramente il turismo. Chi ha visitato Roma recentemente non può non essersene accorto. Il turismo è tornato nel nostro paese, a parte naturalmente per le direttrici provenienti da Russia e Cina. Esistono poi molti altri settori che possono porsi importanti obiettivi di crescita, dalla meccanica alla chimica, passando per farmaceutico e alimentare. A questo proposito è appena terminata un’edizione della manifestazione Cibus scoppiettante, dove si è vista la forza dell’agricoltura e dell’industria alimentare italiana. Noi non abbiamo un sistema fatto solo di acciaio e materie prime provenienti dall’estero, ci sono un sacco di settori che continuano a funzionare. E’ chiaro che i margini si riducono, a causa dei costi fissi in aumento, ma se in altri paesi esistono interi settori completamente bloccati, da noi questo non succede perché la nostra industria è fatta di tante imprese medie e medio-grandi molto solide e patrimonializzate, senza debiti e con patrimoni netti uguali o fino a due volte il fatturato. Si tratta di realtà in grado di produrre anche in perdita, ovviamente per periodi non troppo lunghi, ma sufficienti per conquistare quote di mercato lasciate libere da aziende internazionali ferme. Non tutta l’Italia dunque è paralizzata da una crisi di identità.
L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di giugno 2022 del magazine di Wall Street Italia