A puntare i riflettori contro Meta, la casa madre di Facebook e Instagram, ci ha pensato la Procura di Milano, che ha aperto, nei confronti della società, un fascicolo per omesso versamento dell’Iva per quasi 870 milioni di euro. Questo importo è emerso a seguito di alcuni accertamenti effettuati dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza, che ha fatto partire alcuni controlli a seguito della mancata presentazione della dichiarazione Iva della multinazionale che controlla WhatsApp, Instagram e Facebook.
A riportare alcuni dettagli sulla vicenda ci ha pensato “Il Fatto Quotidiano”, che ha messo in evidenza che l’indagine è stata avviata dalla Procura europea. Nei giorni scorsi, comunque, come riferiscono alcune fonti qualificate, l’inchiesta sarebbe passata, per competenza direttamente ai pubblici ministeri milanesi.
Cosa sarebbe contestato direttamente alla casa madre di Facebook? In estrema sintesi l’Iva non versata riguarderebbe l’iscrizione degli utenti nelle varie piattaforme social: le iscrizioni, ovviamente, stanno avvenendo gratuitamente, ma l’utente, nella realtà dei fatti, paga una sorta di pedaggio. Mette a disposizione i propri dati personali, che vengono regolarmente profilati da Meta. La società, proprio su questo scambio di dati (l’utente fornisce i propri dati sensibili e Facebook e Instagram ti permettono di accedere alla piattaforma), riesce a trarre profitto. Su questo guadagno, quindi, deve essere applicata l’Iva.
Meta: un caso inedito
La presunta Iva non pagata da Meta costituisce a tutti gli effetti un inedito. Cerchiamo di capire meglio che cosa sta accadendo. La presunta Iva che non è stata versata riguarda le iscrizioni degli utenti nelle varie piattaforme social. Come molti ben sapranno, gli utenti possono accedere a Facebook o a Instagram gratuitamente: Meta fornisce l’accesso alle proprie piattaforme senza chiedere nemmeno un centesimo. D’altro canto, è anche vero che gli utenti forniscono ai due social qualcosa di veramente prezioso: stiamo parlando dei loro dati, con la potenziale profilazione.
Almeno in apparenza sembra uno scambio gratuito: quindi non ci dovrebbe essere alcun problema. Nella realtà dei fatti, secondo gli analisti e gli investigatori, si è davanti ad un vero e proprio baratto. Anzi, più precisamente alla permuta di beni differenti. Il nocciolo della questione si basa proprio su questo punto: quando vi è una permuta con la cessione di beni o prestazioni in cambio di servizi, l’operazione è soggetta separatamente al regime Iva. Questo è il motivo per il quale la Guardia di Finanza è stata incaricata di analizzare i dati ed effettuare le opportune verifiche.
I dati che ogni utente fornisce a Facebook o Instagram possono essere monetizzati in qualsiasi momento. E, ovviamente, Meta ne può trarre profitto in qualsiasi momento. I guadagni della società nascono proprio da questa permuta originaria, che deve, quindi, essere soggetta all’Iva. Andando ad analizzare i dati e i flussi economici, gli investigatori hanno calcolato che solo e soltanto per il 2021 Meta avrebbe dovuto versare all’Italia qualcosa come 220 milioni di euro. Una cifra non da poco, che potrebbe lievitare se questo principio venisse esteso a tutte le multinazionali del settore.
Questa sicuramente è la portata storica dell’indagine che sta effettuando la Guardia di Finanza. In questo caso non è in discussione la tutela dei dati sotto il profilo della privacy: per la prima volta vengono analizzati per il loro peso finanziario e fiscale. Negli uffici di Grand Canal Square, però, pare che non vi sia molta voglia di spingersi a un “muro contro muro”. E l’ipotesi di versare il dovuto (secondo la tesi di Finanza e Agenzia delle Entrate) non è scartata a priori.