di Patrice Gautry (UBP)

Banche centrali, alle strette tra crisi bancaria e lotta all’inflazione

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A maggio la Federal Reserve ha aumentato nuovamente i tassi di interesse di 25 punti base, portandoli al 5-5,25%. Al tempo stesso ha però precisato di essere disposta a porre un freno ai rialzi a condizione che l’inflazione continui a scendere e che il mercato del lavoro si stabilizzi. Nonostante le condizioni poste, questa nuova posizione indica un chiaro cambiamento di strategia nella lotta all’inflazione. Le banche centrali degli altri Paesi sviluppati si trovano in una posizione simile: la Bce e la Banca d’Inghilterra, che hanno anch’esse aumentato i tassi a maggio, potrebbero proseguire con i rialzi a giugno e anche luglio, ma sono vicine ai loro rispettivi obiettivi del 3,75% e del 4,75%. Come l’omologa Usa, sono disposte a interrompere i rialzi solo se l’inflazione core (esclusi i prezzi dell’energia e dei generi alimentari) diminuisce, il che non è affatto scontato né per l’Ue né per il Regno Unito.

Nei Paesi emergenti, i rialzi dei tassi sono iniziati ancor prima rispetto agli Stati Uniti e all’Eurozona. L’America Latina è quasi alla fine del ciclo di rialzi e l’Asia è a un buon punto, anche se l’inflazione core è ancora un rischio in alcuni paesi. In tutte le regioni, ad eccezione di Cina e Giappone dove la politica monetaria resta accomodante, gli aumenti dei tassi di interesse si stanno gradualmente esaurendo.

Tuttavia, dopo la pandemia e la crisi energetica, sta emergendo un nuovo fattore di rischio. Nei Paesi sviluppati, la crescita forte e l’inflazione elevata hanno lasciato il posto a un’attività economica debole, a un’inflazione persistente nei servizi e a crepe nel settore finanziario. Le banche centrali sono ora alle prese con la necessità di contenere un’inflazione superiore ai target e di gestire una potenziale crisi bancaria sistemica.

Banche centrale bloccate tra inflazione e instabilità finanziaria?

Le banche centrali hanno separato la gestione della crisi bancaria dalla più semplice lotta all’inflazione. Le loro iniezioni di liquidità a intermittenza e il consolidamento forzato del settore hanno tenuto in qualche modo sotto controllo la crisi bancaria mentre andava vanti il rialzo dei tassi. Tuttavia, resta l’incertezza sia sul fronte della salute del sistema bancario Usa sia su quello riguardante la lotta all’inflazione.

D’accordo con il consenso, non ci aspettiamo che l’inflazione core torni al 2% a breve, e in ogni caso probabilmente non prima del 2025. Le banche centrali dovranno innescare una disinflazione nei servizi, un’area meno sensibile alle fluttuazioni dei tassi di riferimento, e dovranno mitigare la domanda nei mercati del lavoro e del credito. La domanda di prestiti da parte delle imprese nell’area dell’euro e negli Stati Uniti è crollata, con una contrazione dell’offerta e condizioni di finanziamento più rigide, che probabilmente rimarranno tali anche nei prossimi trimestri. Se le banche centrali dovessero davvero fare un passo indietro come hanno fatto con i tassi, delegheranno indirettamente alle banche commerciali il compito di regolare la domanda finale attraverso l’offerta di credito.

Il rischio è che un settore bancario in fermento comprima l’offerta di credito più del necessario o, al contrario, che l’accresciuta concorrenza tra le banche limiti l’irrigidimento della domanda solo ad alcuni settori. Al di là dell’intervento della Fed (con un potenziale taglio dei tassi) e delle autorità di regolamentazione, per risolvere la crisi bancaria statunitense sarà necessario non solo l’intervento del Congresso e una revisione dei modelli di business delle banche di medie dimensioni, ma probabilmente anche un forte risanamento. In breve, saranno le azioni dei governi e delle banche a determinare l’equilibrio tra stabilità finanziaria e inflazione.

È ancora la Fed a dettare l’andamento dei tassi?

Se nel 2022 e all’inizio del 2023 la politica monetaria si è inasprita, la politica fiscale è invece rimasta espansiva e il sostegno alle famiglie e all’industria – in risposta prima alla pandemia e poi alla crisi energetica – ha mantenuto alti i deficit pubblici. Entro il 2024 è probabile che venga di nuovo messo un freno ai bilanci a causa dell’aumento dei costi di servizio del debito, delle pressioni esercitate dalle agenzie di rating su imprese e governi e della volontà politica di controllare il debito sia negli Stati Uniti (ad esempio, il Congresso) sia nell’UE (rinnovo dei criteri di Maastricht). Se la politica monetaria dovesse rimanere aggressiva, potrebbe rallentare ulteriormente l’economia e se, al contrario, le banche centrali dovessero tagliare i tassi troppo velocemente, ciò potrebbe compromettere le misure fiscali. Entrambi gli scenari non favorirebbero la stabilizzazione del ciclo economico, soprattutto in vista delle elezioni negli Stati Uniti.

Nel frattempo, sebbene le loro prospettive per la fine del 2023 e del 2024 non siano ancora particolarmente solide (eccezion fatta per la Cina), i paesi emergenti potrebbero trovarsi a dover iniziare a ridurre i tassi non appena l’inflazione avrà raggiunto il target, il che potrebbe avvenire prima rispetto agli Stati Uniti e all’Ue.

Mentre la supremazia del dollaro, e di fatto degli stessi Stati Uniti, inizia a essere messa in discussione, la desincronizzazione tra le politiche monetarie, i tassi di crescita e le tendenze dell’inflazione delle principali regioni sta portando a un maggior multipolarismo e a una feroce competizione tra i paesi.