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(WSI) –
Grande ricambio in soli due decenni. «Non mi ero accorto che, alla fine, Piazza Affari può in un certo senso vantarsi di essersi rinnovata al pari di Wall Street». Giovanni Tamburi, alla guida di Tip — la piccola merchant bank, votata al capitalismo familiare, quotata da qualche anno sul nostro listino — non ha dubbi. La constatazione più interessante che un decano della Borsa può fare davanti ai numeri delle famiglie con blue chip è proprio quella del rinnovamento.
In vent’anni ai pochi re del listino (Agnelli, De Benedetti, Pesenti) si è aggiunta una folla di ricchezze che prima non c’era. «Negli Stati Uniti non si fa altro che dire quanto gli attuali giganti del più grande mercato del mondo, da Microsoft a Google, siano titoli giovanissimi, con pochi decenni di vita. Ebbene, fatte le debite proporzioni, direi che da noi è accaduto lo stesso».
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Insomma lei dice che non siamo poi così bloccati come ci descriviamo qualche volta….
«Non mi spingo troppo in là. Dico solo che vent’anni fa l’80% dei nomi che leggo qui — Leonardo Del Vecchio, i Garavoglia, Moretti Polegato ma anche lo stesso Ennio Doris solo per dirne alcuni — erano ben lungi dall’essere quello che sono diventati oggi. Dei capisaldi del listino, con capitalizzazioni che vanno da 2 a 20 miliardi di euro».
E questo che cosa significa?
«Che il capitalismo familiare funziona. Da sempre fa meglio dello Stato o di soggetti più anonimi. Dal mio punto di vista non è una novità. E direi che anche altrove gli uomini, i capitani di industria che possiedono e almeno in parte governano le aziende, sono quelli che creano più valore per gli azionisti».
Molte industrie, zero banche. Sono sparite tutte quelle di famiglia. Era inevitabile?
«Certo. L’ultima ondata di fusioni ha confermato che è impossibile competere sul mercato dei capitali senza stazze gigantesche che non consentono il controllo familiare. Resta il Credem dei Maramotti. O il Banco di Desio dei Gavazzi Lado. Ma sono eccezioni che confermano la regola».
Dunque è definitivamente archiviata un’epoca?
«Diciamo che in compenso le grandi famiglie sono nel capitale delle mega banche. Molti dei nomi di imprenditori che si leggono nella tabella possiedono quote delle banche più importanti e siedono nei loro patti di sindacato. Dunque il rapporto tra il capitalismo familiare all’italiana e il credito non si è interrotto. E’ solo cambiata la prospettiva».
Che differenza c’è tra i grandi nomi familiari che hanno fatto la storia antica della Borsa e quelli che si affacciano adesso?
«La prima diversità è data dal fatto che i quaranta-cinquantenni di oggi hanno ben più voglia di utilizzare lo strumento della quotazione per curare la crescita dell’azienda di quanto non ne avessero i loro nonni e genitori. Ma molti di loro hanno semplicemente cambiato idea negli ultimi anni».
Le matricole degli ultimi tempi sono di stampo familiare?
«Molte sì. Ma è propio cambiato l’atteggiamento degli imprenditori verso le azioni. Oggi andare in Borsa da molti è considerato un vanto. L’altro giorno mi è capitata una cosa che non era mai successa nella mia carriera di banchiere: avevo seduti davanti, desiderosi di avere notizie sul procedimento di quotazione, ben tre imprenditori».
Tanti?
«Tre alla volta sembra un sogno. Non molti anni fa convincerne uno era un gran successo».
Allora non è vero che Piazza Affari è la più povera d’Europa in fatto di aziende quotate?
«No, purtroppo questo primato è ancora nostro. Nonostante le 30 quotazioni all’anno che hanno caratterizzato gli ultimi tempi, siamo sempre un listino di soli 300 titoli a fronte di milioni di aziende. E siamo considerati ancora una delle potenze industriali del mondo».
Da Ferrero a Barilla, il nostro sistema ha anche molti grandi marchi e grandi fatturati che non hanno voluto, almeno finora, la Borsa….
«Questo accade dovunque. Anche in Francia o negli Stati Uniti o in Germania ci sono giganti che non sono quotati proprio perché controllati da grandi famiglie. L’importante è non scartare a priori lo strumento, ma non bisogna nemmeno demonizzare chi decide per ragioni assolutamente valide di non usarlo».
Non è che se cambia il tempo in Borsa le famiglie tornano a casa?
«I corsi e ricorsi sono da mettere in conto. Ma credo che si possa parlare a questo punto di un vero e proprio cambio di mentalità».
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