Nel 2021 un nuovo fenomeno ribattezzato “Great Resignation” ha fatto la sua comparsa negli Stati Uniti: un trend epocale che ha visto milioni di lavoratori scegliere di non tornare al lavoro dopo i lockdown indotti dal Covid, insieme a un crescente numero di dimissioni accompagnate da inedite difficoltà ad assumere personale da parte delle imprese.
Sebbene questa tendenza sia lampante, con i tassi di dimissioni volontarie in crescita del 3%, le sue cause risultano ancora piuttosto indefinite. Vari fattori sono spesso anteposti per interpretare questo mutamento, tra cui la fine dei flussi migratori in ingresso, un netto aumento nel numero di pensionamenti, o la possibilità per alcuni cittadini statunitensi di fare affidamento sugli aiuti economici erogati durante la pandemia da Covid-19, quale principale fonte di reddito.
Ognuno di questi fattori è almeno in parte assodato. Ad ogni modo, si tratta di fattori ciclici. A due anni dalla fine delle misure restrittive anti-Covid, il mercato del lavoro rimane indiscutibilmente sotto una notevole pressione. I dati parlano chiaro: vi sono ancora 10 milioni di offerte di lavoro negli Stati Uniti, mentre in Giappone i lavoratori hanno visto il maggior aumento salariale degli ultimi 25 anni.
Volgendo lo sguardo all’Eurozona, il tasso di disoccupazione ha registrato il livello minimo dalla fine degli anni ’90 (6,6%). Tale inversione di tendenza trova una spiegazione evidente e strutturale nei mutamenti demografici. La popolazione in età lavorativa globale ha iniziato a ridursi; è un punto di svolta molto significativo. È importante tener presente che negli anni ’80, in concomitanza con l’apertura dell’economia cinese, milioni di lavoratori hanno fatto il loro ingresso nella forza lavoro globale; quest’ultima ha poi raggiunto il suo picco poco prima del 2020. Tuttavia queste dinamiche stanno registrando ora un’inversione di tendenza con l’invecchiamento della popolazione cinese. Di fatto, la popolazione in età lavorativa del gigante asiatico sta diminuendo, unendosi così al calo del numero di lavoratori dei Paesi sviluppati.
Una sostanziale carenza di manodopera
Una delle peculiarità della tendenza appena descritta risiede nella relativa fattibilità nel delineare la sua evoluzione nel corso dei prossimi anni. Non servono infatti ipotesi complesse, dal momento che basta osservare le generazioni pronte ad entrare nel mercato del lavoro nei prossimi anni, raffrontandole con quelle prossime al pensionamento. Queste “coorti di lavoratori” sono già presenti e i relativi dati sono affidabili. Le stime indicano che, entro il 2030, ben 15 tra le principali economie mondiali (Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Giappone, Canada ecc.) registreranno una carenza di manodopera. In Germania potrebbero mancare all’appello 8 milioni di lavoratori entro il 2030, vale a dire oltre il 20% dell’intera forza lavoro tedesca! Sulla base di questi fattori, riteniamo che la transizione osservata nelle dinamiche di potere tra datori di lavoro e dipendenti sia destinata a permanere.
È opportuno osservare che i costi associati alle dimissioni di un dipendente possono variare da un terzo fino a cinque volte l’importo del suo stipendio annuale, solo per citare i costi diretti. Sarebbe inoltre opportuno includere in tale stima anche i rischi di esecuzione.
Un basso turnover del personale offre perciò un sostanziale vantaggio in termini di costo e riduce l’esposizione delle società ai rischi operativi. In tale contesto, le società in grado di attrarre, formare e mantenere i talenti hanno evidentemente un forte vantaggio competitivo.
Si tratta di un notevole cambio di paradigma, che si pone in netto contrasto con il recente passato quando i talenti erano una risorsa abbondante e facilmente reperibile. Questo è il motivo per cui oggi gli investitori devono includere nella loro analisi finanziaria anche una disanima dell’attrattiva delle società sul mercato del lavoro.