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One to One. Maya Ghazal, la prima donna pilota siriana

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A 21 anni ha realizzato il suo sogno: diventare la prima donna pilota siriana. La storia di questa giovane rifugiata insegna

Con una storia di grande ispirazione, Maya Ghazal, ambassador di UNHCR (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), si batte per dare ai rifugiati eguali opportunità ed accesso all’istruzione, contrastando gli stereotipi negativi che spesso vengono attribuiti a loro. Fuggita dalla Siria durante l’adolescenza, oggi Maya è una cittadina del mondo e il suo messaggio è rivolto a tutti noi. 

Maya Ghazal (foto: UNHCR/Gordon Welters)

Prima del conflitto in Siria era una ragazza normale, aveva una grande famiglia e molti amici. Amava la sua casa ed era orgogliosa del suo Paese. Qual è il ricordo più bello che ha della sua infanzia?
“I ricordi più belli sono quelli legati alla mia famiglia. Il giovedì e il venerdì ci riunivamo con i miei cugini a casa di mia nonna, l’atmosfera era vivace, siamo cresciuti insieme. Il venerdì andavamo a Bloudan, un villaggio di montagna situato a nord-ovest di Damasco, con la famiglia di mio padre. I ricordi più felici della mia infanzia sono i semplici momenti passati in famiglia”.

Dopo lo scoppio della guerra, elettricità, acqua e cibo sono diventati sempre più scarsi e costosi. Poi le bombe ed i combattimenti hanno reso tutto molto pericoloso, tanto che ha dovuto cambiare scuola tre volte. Che impatto ha avuto su di lei questo conflitto?
“Avevo 12 anni quando è scoppiata la guerra. All’inizio non capivo cosa stesse succedendo, ma quando le bombe sono arrivate a Damasco sono dovuta crescere molto in fretta. All’improvviso abbiamo dovuto affrontare i problemi legati ai soldi e abbiamo realizzato che non era più possibile vedere i nostri amici. Quando mio padre andava al lavoro ogni mattina c’era la possibilità che non lo rivedessimo più. I miei genitori hanno cercato di proteggerci, ma è stato molto difficile. Ho dovuto cambiare scuola tre volte perché nulla era più sicuro, i miei genitori erano preoccupati che i miei fratelli ed io saremmo stati rapiti mentre andavamo a scuola. Non potevamo rischiare la vita in quel modo. Abbiamo dovuto affrontare cose che di solito i dodicenni non affrontano. Solo allora abbiamo capito l’importanza dell’istruzione: avevamo bisogno di andare a scuola, ma allo stesso tempo stavamo rischiando la vita per farlo. Ogni volta che sentivamo un rumore dovevamo nasconderci sotto qualcosa ed allontanarci dalle finestre. Abbiamo dovuto imparare tutto ciò per essere al sicuro dalle bombe”.

 Nel 2015 è fuggita da Damasco e ha iniziato una nuova vita nel Regno Unito. Quando è arrivata in Inghilterra ha dovuto affrontare però numerosi problemi incluso quello delle scuole, che non hanno riconosciuto i suoi certificati di istruzione siriani. Qual è stata la difficoltà più grande?
“Quando sono arrivata ero abbastanza emozionata, sognavo Londra e i suoi autobus rossi, pensavo che avrei incontrato il Principe di Galles in una delle sue passeggiate. Sono stata molto delusa di dover lottare per ricevere un’educazione: ho dovuto affrontare la morte per andare a scuola in Siria e non essere accettata nelle scuole del Regno Unito mi ha spezzato il cuore. È stato molto duro da affrontare: prima la guerra, poi arrivare in Europa e dover dimostrare alla gente che avevo diritto a un’istruzione. All’inizio non conoscevamo nessuno, ma non avrei permesso a nulla di sovrapporsi tra me e i miei studi: non ho lasciato che le bombe del mio Paese mi fermassero e non lo avrei permesso qui. Questo viaggio mi ha fatto diventare ciò che sono oggi, mi ha dato la forza e la determinazione per comprendere il valore dell’istruzione, mi ha spinto a iniziare il mio percorso di volontariato con UNHCR, mi ha permesso di mostrare il lato umano dei rifugiati e di condividere la mia storia e quella di tanti altri che nonostante le avversità sono riusciti ad avere successo e a trovare il loro posto nel mondo”.

Il conflitto in Siria negli anni: in alto, un ragazzino passa davanti a una barricata improvvisata fatta di rottami di autobus nella parte controllata dai ribelli nella città di Aleppo, nel nord della Siria (marzo 2015); in basso, uomini in bicicletta passano davanti a edifici danneggiati nel campo profughi di Yarmuk, nella periferia meridionale di Damasco, la capitale siriana (novembre 2022)

In un recente discorso al Palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra ha raccontato come affrontare il tema dei rifugiati e ha spiegato perché bisogna investire nel loro potenziale. Ce ne può parlare?
“Quando si parla di rifugiati è importante non cadere negli stereotipi: non bisogna pensare che tutte le loro storie siano uguali, anche loro sono esseri umani con sogni e speranze. Non sono solo individui che sono stati colpiti dalla guerra, ma persone con un potenziale infinito e con qualità e competenze uniche. Quando ho iniziato il mio percorso formativo ho deciso di diventare pilota, ma ci sono molti rifugiati che sono più intelligenti di me e che fanno cose incredibili. In una recente visita al campo profughi di Azraq in Giordania ho incontrato due donne straordinarie. Hanno lavorato molto per la loro istruzione, anche quando non c’era elettricità e quando faceva freddo. Una stava studiando per diventare medico, ma non è riuscita a realizzare il suo sogno per mancanza di fondi. L’altra ha ottenuto una borsa di studio e mentre studiava letteratura araba all’università educava anche le persone nei campi profughi. I rifugiati sentono sempre il bisogno di restituire qualcosa sia alle comunità locali che ai Paesi che li hanno ospitati. Oggi sono un ingegnere ed una ricercatrice e sono molto appassionata del mio lavoro. Investire nei rifugiati significa investire in una nuova generazione di persone che daranno al mondo qualcosa di grande”.

Se potesse dare un messaggio a tutte le poplazioni del mondo, quale sarebbe?
“È molto semplice: ogni atto di gentilezza può cambiare la vita di qualcuno e se credete in noi vi ricompenseremo con il nostro impegno e il nostro talento. Possono sembrare dei cliché, ma sono la verità”.

Ha studiato per ottenere una laurea in ingegneria aeronautica alla Brunel University di Londra. Quando è nata la sua passione per l’aviazione?
“Non avevo mai pensato di diventare un pilota, ma quando sono arrivata nel Regno Unito stavo in un hotel vicino all’aeroporto di Heathrow. Sono rimasta affascinata dagli aerei: potevo guardarli per ore, li trovavo così eleganti. Quando mi sono sentita dire che non ce l’avrei mai fatta come pilota perché ero una donna e perché ero siriana, ho deciso di dimostrare a tutti che si sbagliavano. Mi sono detta: lo farò per me stessa e per i milioni di persone a cui è stato detto che non potevano fare qualcosa a causa del proprio background. Come siriani non ci è permesso di andare in altri Paesi a causa della nostra nazionalità. Sarebbe stato quindi fantastico avere un lavoro che mi permettesse di andare ovunque. Volevo abbattere le barriere sociali ed essere considerata per quello che ero e non per il luogo da dove provenivo. Questo è ciò che amo di più del volare: indipendentemente dal tuo background sei solo un pilota, il cielo non ci sono restrizioni”.

A 21 anni, ha realizzato il suo sogno ed è diventata la prima donna pilota siriana. Ora il suo obiettivo è quello di diventare un pilota di una compagnia aerea commerciale…
“Mi piacerebbe volare su tutti i continenti, ma spero un giorno di poter tornare nel mio Paese e portare finalmente le persone in Siria”.

Ai bambini siriani viene spesso detto dai loro genitori cosa devono fare da grandi: il medico, l’ingegnere o altre professioni tradizionali. Sua madre le ha suggerito di diventare una diplomatica. Cosa le ha fatto cambiare idea?
“Volevo lavorare in un’ambasciata per far scoprire alla gente tutta la bellezza del mio Paese. Quando sono arrivata nel Regno Unito alcuni insegnanti mi hanno detto che sarebbe stato troppo difficile per me studiare scienze politiche. All’epoca ero troppo giovane, guardavo loro e pensavo che avessero ragione. Oggi sono un ingegnere, ho una grande passione per il mio lavoro e uso la mia voce nel mio ruolo di volontaria per UNHCR”.

Maya Ghazal (foto: UNHCR/Andrew McConnell)

Suo padre è fuggito da Damasco nel 2014, vi siete ricongiunti un anno dopo nel Regno Unito. Cosa ricorda del viaggio che ha portato lei e i suoi fratelli dalla Siria alla Turchia e infine a Birmingham?
“Quando è arrivato nel Regno Unito mio padre ha subito chiesto un visto per il ricongiungimento familiare. Siamo stati molto fortunati ad ottenerlo perché è un processo lungo e molto costoso. Ricordo che siamo partiti per il Libano e abbiamo  consegnato i nostri passaporti all’ambasciata. Quando li abbiamo ritirati ognuno aveva il timbro del visto. Il viaggio non è stato difficile, ciò che è stato difficile è stato dover lasciare la mia casa, la mia collezione di orsacchiotti e i miei amici d’infanzia che non sapevo se avrei mai rivisto. Siamo state una delle prime famiglie a lasciare il Paese, ma ero entusiasta alla prospettiva di una nuova vita. Quando siamo arrivati ​​in Libano abbiamo preso un aereo per la Turchia dove siamo rimasti per un mese e poi abbiamo proseguito per il Regno Unito. Non sapevo cosa aspettarmi, ma non vedevo l’ora di fare nuove amicizie. Questo non è successo subito. Guardando indietro, direi che ci è voluto molto coraggio”.

 Lei è la rifugiata che è diventata pilota nonostante essere stata rifiutata da numerose scuole, è colei che incoraggia gli altri ad inseguire i propri sogni indipendentemente dal loro background. Qual è la lezione più importante che la vita le ha insegnato?
“La prima è che se puoi sognarlo, puoi farlo. Ognuno di noi ha una forza incredibile dentro di sé ed è importante usarla per il bene comune. Abbiamo il ​​dovere di rendere questo mondo un posto migliore. Un’altra lezione che ho imparato è che c’è una tempo per tutto: non dobbiamo concentrarci sul passato o sul futuro, dobbiamo piuttosto vivere il presente e riconoscere che il destino è nelle nostre mani. Dobbiamo creare un mondo in cui tutti possano sentirsi accettati e riconosciuti senza essere limitati da stereotipi o etichette”.