La stagione delle privatizzazioni in Italia non è nemmeno agli partita e già si prevede una strada tutta in salita. Per far fronte all’elevato debito e recuperare risorse, il ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) ha disposto nella NaDef presentata a fine settembre un piano di privatizzazioni triennale che dovrebbe garantire un gettito di almeno un punto percentuale di PIL. Ma molti analisti dubitano non solo nelle entrate previste, ma anche nella fattibilità di alcune ipotetiche operazioni.
Il problema delle privatizzazioni non è tanto nella quantità di denaro che lo Stato può assicurarsi, quanto nel riuscire a vendere la propria quota pubblica ai privati. Non sono mancati i casi storici di vendite complesse: dalla celebre IRI alla recente Alitalia-Ita Airways, fino ai progetti più odierni di mettere in vendita le quote in Monte Dei Paschi e Ferrovie dello Stato.
Privatizzazioni in Italia, il piano MEF da 20-22 miliardi di euro
Nell’ultima Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (NaDef), si accenna ad una serie di privatizzazioni che dovrebbero garantire almeno 1% di PIL nelle casse dello Stato, cioè circa 20-22 miliardi di euro in tre anni. A titolo d’esempio, se si riuscisse a garantire la vendita delle quote in Ferrovie dello Stato, separando Trenitalia da Rfi, si arriverebbe intorno ai 5 miliardi. Se lo Stato dovesse uscire dal Monte dei Paschi di Siena, avrebbe già la possibilità di non dover coprire le sue perdite: salvata nel 2017, è costata finora ai contribuenti 8,8 miliardi, secondo le stime della Banca d’Italia. Di contro, la sua capitalizzazione è attorno ai 3,2 miliardi.
Una delle vendite migliori, secondo Repubblica, potrebbe essere la liquidazione delle quote di Eni (12,35%), valutate ad oggi intorno a 6,22 miliardi di euro, più i 5,5 miliardi dalla vendita delle quote Poste (44,2%). E così a seguire le quote di Snam, Terna, Leonardo, tutte aziende parapubbliche, statali fino a qualche decennio fa, e ora con partecipazioni azionistiche e non (si veda la Cassa Depositi e Prestiti). Il MEF punta a raggiungere quota 20 miliardi, così da risanare in parte lo scostamento di bilancio previsto in Manovra, e anche per finanziare le diverse proposte governative promesse fin dalle elezioni di settembre 2022.
Un progetto ambizioso, ma dalla strada impervia. Non solo si dovrebbe trovare il modo di compensare il debito di 15,7 miliardi sui 24 miliardi in Manovra in 3 anni, ma lo Stato rischierebbe di non avere più un ruolo di governance in società strategiche come Poste o Leonardo. Anzi, il suo ruolo potrebbe venire preso da soci non per forza allineati agli interessi nazionali. Se si volesse evitare ad ogni costo questa strada, rimarrebbe fattibile la linea della svendita delle aziende non strategiche, come le Ferrovie dello Stato, ma solo se scorporata dalla Rete Ferroviaria Nazionale. Oppure la vendita delle grandi partecipazioni quotate, come la citata Mps e Ita Airways.
La difficile storia delle privatizzazioni in Italia
Privatizzare in Italia non è assolutamente facile. Tra simulazioni e decisioni da prendere, lo Stato il più delle volte rischia di perderci, anche nel caso di aziende la cui svendita ridurrebbe sensibilmente il carico pubblico. Quando si parla di privatizzazione, in molti ancora si ricordano il caso IRI, ovvero la svendita dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, un conglomerato di aziende pubbliche che era arrivato a fine anni Settanta ad impiegare quasi mezzo milione di persone, ma anche a diventare un peso gravoso per le casse dello Stato quando sempre più aziende del gruppo societario diventavano inefficienti e finivano in rosso.
E come lei molte altre aziende e settori rimasti sotto uno Stato che a fine anni Novanta s’era visto impennare il proprio debito pubblico. Da qui la necessità di vendere a gruppi privati o a creare nuovi gruppi societari. Alla fine di questo periodo, lo Stato Italiano ha guadagnato, come riporta la Corte dei Conti in una relazione di febbraio 2010, circa 152 miliardi di euro. “In un processo di «portata storica» nel periodo 1985-2007 le privatizzazioni delle proprietà economiche pubbliche hanno raggiunto il valore di 152 miliardi.“.
Non sono mancate anche diverse controversie. Oltre alla vicenda SME, finito addirittura in sede giudiziaria con nomi eccellenti quali Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, non sempre lo Stato è riuscito a concludere una privatizzazione nel migliore dei modi. Si pensi al caso Alitalia, la cui storia dura ormai da 30 anni, con i vari e recenti tentativi di trasformarla da una società pubblica in perdita ad una fiorente azienda privata. Oppure al caso della RAI, la cui privatizzazione era stata richiesta addirittura nel referendum del 1995, con la vittoria del Sì al 54,90%. Ma anche se oggi è S.p.A., l’azienda è ancora sotto MEF al 99,56%.
Il bilancio del debito cresce ancora
Il ricorso alle privatizzazioni in Italia in genere nasce per esigenza di bilancio. Dei 152 miliardi stimati dalla Corte dei Conti, ben 97 miliardi provengono dal periodo 1994-2010, (di cui 96 mila miliardi di lire nel triennio 1992-1997, secondo quanto riportato da ItaliaOggi nel 1998). Furono necessari per garantire all’Italia il rispetto dei parametri Maastricht. Nell’ultimo decennio le svendite sono state poche, e sempre meno fruttuose. O addirittura nulle: il Governo Conte I aveva proposto una serie di privatizzazioni, anche queste con la speranza di raggiungere l’1% di PIL. Causa Pandemia Covid e Guerra, nessuno dei progetti è andato in porto.
Anche oggi il debito si presenta come il motivo di questa mossa governativa. I tassi odierni stanno costando quasi 15 miliardi di euro in più a livello di interessi sul debito, e senza una pianificazione concreta della gestione delle finanze, si rischia l’ingestibilità di una bomba pubblica da 2.859 miliardi di euro, ad oggi il 142% rispetto al PIL. La buona riuscita dell’operazione potrebbe lenire gli effetti del debito attuale, ma questo dipenderà anche da come il mercato si presenterà. O che tipo di mercato ci sarà, visto l’andamento sempre più critico della guerra israelo-palestinese.