Le crescenti tensioni geopolitiche in Medio Oriente hanno iniziato a creare disruption nelle catene di approvvigionamento globali. A seguito degli attacchi dei ribelli Houthi alle navi che attraversano il Mar Rosso e che fanno rotta verso il Canale di Suez e le principali economie globali, le maggiori compagnie di trasporto marittimo hanno segnalato notevoli ritardi nelle consegne. Le immagini satellitari confermano che praticamente nessuna nave diretta verso i principali porti europei, statunitensi o britannici sta attraversando il Mar Rosso, e preferisce invece deviare verso l’Africa meridionale. Tanto che, secondo il think tank economico Ifw, Kiel Institute for the World Economy, il numero dei container trasportati in nave sul Mar Rosso in questi giorni è crollato di quasi il 70% rispetto al traffico atteso in questo periodo, a circa 200.000 containers al giorno rispetto agli oltre 500.000 giornalieri registrati lo scorso novembre. Il crollo equivale al 66% in meno rispetto al traffico marittimo atteso in gennaio, calcolato sulla media degli anni 2017-2019. Questo impasse sta già mostrando conseguenze sul commercio globale, diminuito dell’1,3% da novembre a dicembre 2023 a causa degli attacchi dei militanti alle navi mercantili nel Mar Rosso.
Oltre a un allungamento dei tempi, il crollo del traffico marittimo nel Mar Rosso ha provocato anche un’impennata dei costi e una riduzione dell’import-export. Il tempo di navigazione, passando per il Capo di Buona Speranza, si allunga dai 7 ai 20 giorni e questo ha aumentato in modo significativo le tariffe del trasporto marittimo: il trasporto di un container standard da 40 piedi dalla Cina al Nord Europa costa attualmente oltre 4.000 dollari USA, rispetto ai circa 1.500 dollari USA di novembre, hanno calcolato al Kiel Institute.
Ad acuire le tensioni, nel cuore della notte tra l’11 e il 12 gennaio, gli Stati Uniti e il Regno Unito, con il sostegno di Australia, Bahrein, Canada e Paesi Bassi, hanno lanciato una controffensiva aerea e via mare contro una serie di obiettivi militari Houthi nello Yemen, in risposta a quelli contro le navi commerciali nel Mar Rosso da parte delle forze ribelli appoggiate dall’Iran, facendo infiammare i prezzi del petrolio (WTI +2,14% a 73,56 dollari al barile e Brent +1,92% a 78,90 dollari al barile) e del gas (+2% a 31,43 euro a megawattora ad Amsterdam). Una drastica espansione regionale del conflitto tra Israele e Hamas a Gaza.
Come ricordato da David Rees, Senior Emerging Markets Economist di Schroders, quest’ultima disruption fa seguito ai problemi nel Canale di Panama, dove una combinazione di siccità prodotta dai cambiamenti climatici e variazioni delle precipitazioni dovute a El Niño ha causato un abbassamento dei livelli delle acque. Nel contempo, in Europa, l’umidità ha come conseguenza che il livello del Reno, una rotta di navigazione fondamentale per i produttori tedeschi, sia troppo alto. Inoltre, considerato che le imminenti elezioni a Taiwan comportano il rischio di nuove esercitazioni militari a opera della Cina, come quelle che hanno interrotto le rotte marittime asiatiche nel 2022, sembra che le catene di approvvigionamento globali debbano affrontare una tempesta perfetta colma di rischi.
Tutto ciò rievoca ricordi dolorosi: i problemi della catena di approvvigionamento scoppiati durante la pandemia di Covid-19. Essi hanno contribuito al recente aumento dell’inflazione, che, da ultimo, ha costretto le Banche Centrali mondiali a rialzare aggressivamente i tassi d’interesse. I mercati stanno attualmente scontando tagli aggressivi dei tassi d’interesse in Europa, Regno Unito e Stati Uniti, e alcuni tagli sono già previsti nel primo semestre del 2024, ma la resa dell’inflazione sembra ancora lontana.
3 fattori che rendono improbabile un rialzo significativo dell’inflazione conseguente ai problemi nel Mar Rosso
In più, tutto ciò porta a chiedersi se i nuovi problemi delle catene di approvvigionamento implicheranno un aumento dell’inflazione, costringendo i policymaker a rivedere le relative prospettive.
“Molto dipenderà dalla durata degli attuali sconvolgimenti, ma almeno tre importanti differenze nel contesto economico globale suggeriscono che è improbabile che i problemi nel Mar Rosso determinino un rialzo significativo dell’inflazione”, ha però ribattuto perentorio Rees.
- In primo luogo, le condizioni della domanda sono attualmente molto più deboli. Mentre gli ampi stimoli monetari e fiscali hanno sostenuto l’economia globale dopo le prime perturbazioni causate dalla pandemia mondiale, la crescita sta attualmente rallentando. Si prevede una crescita del PIL mondiale di appena il 2,5% sia quest’anno che il prossimo. L’Eurozona è probabilmente già in recessione, il Regno Unito registra una certa debolezza e l’attività negli Stati Uniti sta evidenziando un raffreddamento.
- In secondo luogo, mentre i lockdown per contenere la diffusione del Covid-19 hanno fatto sì che la domanda si concentrasse nel settore dei beni durante la pandemia, i modelli di consumo sono ora molto più equilibrati. In effetti, la riapertura delle economie ha determinato il fatto che, negli ultimi due anni, la domanda si orientasse nuovamente verso i servizi, lasciando il settore manifatturiero globale in recessione.
- In terzo luogo, anche sul fronte dell’offerta, l’economia globale è in condizioni decisamente migliori. Mentre, durante la pandemia, la produzione era completamente bloccata per via di lockdown che venivano imposti e poi rimossi, ora non si registrano sconvolgimenti di questo tipo. Le deviazioni intorno all’Africa meridionale allungheranno i tempi di consegna, ma le merci giungeranno comunque a destinazione, il che suggerisce che vere e proprie carenze sono improbabili. Peraltro, i recenti dati commerciali della Cina, che mostrano una crescita delle esportazioni molto più rapida in termini di volumi che non di valori, suggeriscono che le aziende, almeno in alcuni settori, sono costrette a scontare i prezzi per smaltire le capacità in eccesso.
L’escalation di tensioni in Medio Oriente mette a rischio l’offerta di materie prime
“Un rischio più immediato per l’inflazione globale subentrerebbe se le tensioni in Medio Oriente iniziassero a influenzare l’offerta di materie prime, in particolare facendo salire i prezzi dell’energia. Si tratta di un aspetto che abbiamo iniziato a monitorare nel nostro ultimo ciclo di previsioni. In uno dei nostri scenari, focalizzato sulle crisi geopolitiche, ipotizziamo che, oltre alle frizioni commerciali, un ampliamento delle tensioni nella regione potrebbe far salire i prezzi del petrolio verso i 120 dollari al barile. La nostra simulazione prevede che l’economia globale si muoverebbe verso una stagflazione, dato che l’aumento dei costi energetici farebbe salire l’inflazione, col rischio di effetti secondari (data la rigidità dei mercati del lavoro) che peserebbero sulla crescita, costringendo le Banche Centrali a rinunciare ai tagli dei tassi e, forse, anche a ulteriori rialzi”.
Tuttavia, finora, i prezzi del petrolio hanno registrato un andamento soddisfacente e il petrolio greggio Brent è rimasto sostanzialmente invariato, a poco meno di 80 dollari al barile. L’equilibrio è dato da un lato dalla produzione record di petrolio negli Stati Uniti, che dovrebbe mantenere ben forniti i mercati petroliferi all’inizio di quest’anno. Dall’altro la domanda di petrolio dovrebbe invece indebolirsi, a causa degli alti tassi di interesse e dell’inflazione, salita al 3,4% a dicembre negli Stati Uniti su base annua rispetto al 3,1% di novembre. Anche il principale importatore di petrolio, la Cina, dovrebbe registrare una domanda più debole poiché la ripresa economica post-Covid fatica a decollare nel Paese, mentre le pressioni deflazionistiche persistono, rafforzando le aspettative di ulteriori misure di stimolo per sostenere l’economia cinese. In dicembre infatti i prezzi al consumo in Cina sono rimasti in deflazione, scendendo dello 0,3% anno su anno, ancora trainati dai cali dei prezzi nei comparti degli alimentari e dei trasporti.
Il Senior Economist dei mercati emergenti di Schroders invita però alla prudenza:
“l’ultimo incaglio nelle rotte di trasporto costituisce l’ennesimo promemoria dei rischi associati a lunghe catene di approvvigionamento in un mondo sempre più frammentato. Di conseguenza, il riassetto delle filiere globali, che costituisce un pilastro fondamentale del nostro scenario del “3D reset”, sembra destinato a proseguire”.