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(WSI) – Si dice che sia colto chi ha dimenticato molto. Sui mercati vale ogni tanto la regola per cui fa meglio chi riesce a dimenticare alcuni capitoli dei libri di testo di economia studiati in gioventù. Da anni non vale (quasi) più che chi svaluta imbarca inflazione. Non vale più (molto) che il pieno impiego porta inflazione. Non vale (assolutamente) più che i paesi in rapido sviluppo hanno un disavanzo delle partite correnti da finanziare importando capitali (è esattamente il contrario). Non vale (quasi) più che il petrolio che triplica di prezzo provoca recessione e inflazione. Non vale più (per ora) che la crescita dell’offerta di moneta fa salire l’inflazione. Non vale più (a tutt’oggi) che l’asset inflation tracima inevitabilmente in inflazione al consumo. Non vale (praticamente) più che una curva dei rendimenti invertita preannuncia recessione. Non vale più (rituale apotropaico) che una recessione degli Stati Uniti diventa automaticamente recessione globale. Non vale più (stesso rituale) che una feroce recessione dell’edilizia anticipa invariabilmente una recessione tout court.
Il “non vale più” più interessante in questo momento è però quello per cui, nel mondo ideale dei libri di testo, i prezzi delle case e quelli delle azioni si muovono nella stessa direzione. Le azioni scontano il flusso degli utili futuri al tasso atteso. Le case scontano il flusso degli affitti futuri al tasso atteso. Tra case e azioni non c’è una differenza ontologica.
Succede però che da qualche anno questa regola, per periodi lunghissimi, si è completamente capovolta. La nostra tesi è che stiamo entrando di nuovo in un periodo di questo tipo.
Dal marzo del 2000 al marzo del 2003 l’S&P500 è passato da 1527 a 797. E’ sceso cioè del 48%. Nello stesso identico periodo l’indice SP/Case-Shiller, che calcola i prezzi delle case nelle 20 principali aree metropolitane degli Stati Uniti, è cresciuto del 40%. Le ragioni di questa spettacolare correlazione inversa sono tante, ma una emerge su tutte. Per mitigare il crollo della borsa e i suoi effetti recessivi la Fed ha abbassato i tassi dal 6.50 all’uno per cento, alimentando consapevolmente l’inflazione immobiliare (e le costruzioni). Per attutire lo scoppio di una bolla ne ha creata un’altra. Oggi immobiliare e borsa si trovano in una situazione inversa rispetto al marzo 2000. Allora la borsa era straordinariamente cara. L’immobiliare, per contro, pur essendo in ripresa da qualche tempo risentiva ancora della crisi delle Savings and Loans dell’inizio degli anni Novanta e aveva valutazioni ragionevoli.
Oggi è invece l’immobiliare ad essere in bolla, mentre le borse hanno valutazioni ancora ragionevoli. Che l’immobiliare sia in bolla lo dice il fatto che il suo valore è di 1.7 volte il Pil (è un rapporto che vale grosso modo tanto per gli Stati Uniti quanto per il mondo nel suo insieme). Fino al 2000, storicamente, il valore dell’immobiliare non aveva mai superato 1.2 volte il Pil, più o meno come l’azionario (che si trova oggi a questo livello). Non viene in mente nessuna ragione convincente che giustifichi la forbice che si è creata in questi anni. Se è così, è ragionevole supporre che l’1.7 dell’immobiliare e l’1.2 dell’azionario si incontrino, di qui a qualche anno, a metà strada, dando vita a un’altra lunga fase di correlazione invertita, ma di segno opposto rispetto ai primi anni Duemila.
Non solo (e qui viene la parte più interessante). Più veloce sarà la caduta delle quotazioni immobiliari negli Stati Uniti, più la borsa sarà chiamata a compensarla muovendosi nella direzione opposta o, quanto meno, rimanendo storicamente impassibile di fronte al bear market delle case. La crisi di agosto ha preoccupato la Fed per due ragioni. La prima, il congelamento del mercato dei crediti, è in via di rapida risoluzione. La seconda, quella di cui Greenspan ci parla tutti i giorni nelle presentazioni del suo libro (interessante, ben scritto e per niente noioso), è che la crisi dei mutui può accelerare il bear market immobiliare, che a sua volta può portare a una contrazione dei consumi e a una recessione.
Studiando la funzione di reazione della Fed alla crisi di agosto (giù i tassi e giù il dollaro) si può concludere che tanto più veloce sarà la discesa delle case tanto più veloce sarà la discesa dei tassi e del dollaro. Tanto più scenderanno i tassi e il dollaro, tanto più salirà (o resisterà stoicamente) l’azionario. Naturalmente vale anche il contrario. Se, come tutti ci si augura, il bear market immobiliare sarà lento e morbido, allora i tassi e il dollaro scenderanno poco e l’azionario salirà meno.
Questo programma, attenuare lo scoppio di una bolla creandone un’altra, è ovviamente complesso e fa nascere nuovi problemi, che adesso andremo a vedere, ma, a grandi linee, sembra non solo verosimile, ma già avviato con pieno impulso.
Il primo vincolo è naturalmente l’inflazione. Non sarà più così vero che svalutare fa imbarcare inflazione e sarà anche vero che si può reflazionare (tagliando i tassi) senza spingere troppo i prezzi, ma bisogna stare attenti. In questa fase matura dell’espansione l’inflazione è facilmente infiammabile e, come dice Greenspan, si rischia molto più di qualche anno fa di non riuscire più a riacciuffarla. Per fortuna, sull’inflazione, c’è una finestra di opportunità di due-tre trimestri per la quale dobbiamo ringraziare la politica restrittiva dell’ultimo anno e mezzo. A un certo punto del 2008, tuttavia, la Fed e la Bce dovranno però riprendere a parlare d’inflazione, pena una perdita di credibilità. Quando lo faranno i mercati azionari e l’euro (soprattutto se nel frattempo saranno saliti) si spaventeranno e correggeranno velocemente. La volatilità è assicurata.
Il secondo vincolo è la ripartizione del peso della svalutazione del dollaro tra Europa e Asia. Con il ritorno della voglia di rischiare il carry trade è ripreso alla grande sulle valute emergenti (e passi) e sullo yen (e qui c’è da ridire). Dal canto suo il renminbi fa il pesce in barile, sta fermo contro dollaro e quindi svaluta (ripetiamo, svaluta) contro euro. E’ una situazione di cui l’Europa non puà essere entusiasta, e infatti non lo è. Per il momento sono i politici a rumoreggiare, mentre la Bce sopporta in nome della lotta all’inflazione. Fra qualche mese, però, l’economia europea potrebbe trovarsi a rallentare troppo, nel qual caso sentiremo rumoreggiare anche la Bce. In sintesi, anche sui cambi esiste una finestra di opportunità per reflazionare via svalutazione del dollaro, ma anche questa finestra non resterà aperta in eterno senza effetti collaterali spiacevoli.
In generale, questa ingegneria delle bolle, per quanto ben studiata non è priva di aspetti inquietanti, almeno nel medio termine. Il graduale deterioramento strutturale del quadro complessivo non è un’invenzione di Greenspan. Questa è indubbiamente una fase storica di splendida espansione globale, ma qua e là si comincia a sentire un certo affanno. Per continuare a funzionare bene è necessaria una quantità crescente di sostanze psicotrope, a volte eccitanti e a volte calmanti. Si rischia l’assuefazione e, se si sbagliano le dosi, si rischia il collasso. Nel breve, in ogni caso, una dose di reflazione è senza alcun dubbio il male minore. Operativamente sembra giusto prendere parte al processo di ricostituzione delle posizioni di rischio, ma senza strafare. Il Fomc del 30 ottobre non è a esito garantito e in questo momento i mercati sembrano invece sbilanciati nel senso dell’ottimismo.
Le aree di rischio più interessanti rimangono l’interbancario a tre mesi nel monetario (la paranoia dei tesorieri è ancora forte), i prestiti per Lbo nell’obbligazionario e l’azionario (non nell’immediato, ma per fine anno e oltre). Meno interessanti la curva dei governativi e i crediti.
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