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L’ EMIRO PUTIN E LA GUERRA DEL PETROLIO

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(WSI) – Se Nicolas Sarkozy sperava di ottenere una “rupture” anche con Vladimir Putin, al Cremlino ha dovuto arrendersi. Alle accuse sulla Cecenia e sull’assassinio di Anna Politkovskaja Vladimir Putin non si è scomodato nemmeno a ricorrere al gelido “sono nostri affari interni”, limitandosi a citare una frase abusta di un poeta russo dell’Ottocento: “La Russia non si può capire con la ragione, né venire misurata con un metro comune”. E sulle vicende nucleari di Teheran – dove il cambiamento di posizione di Parigi sembrava dovesse produrre una svolta diplomatica – il capo del Cremlino ha fatto addirittura un mezzo passo indietro.

Condivide le preoccupazioni occidentali su un programma atomico “non trasparente” degli ayatollah, ma dichiara che “in mancanza di elementi per affermare che si tratti di un programma a scopi militari non abbiamo motivo per considerarlo tale”. In altre parole, ogni dubbio è interpretato a favore dell’imputato, di cui Mosca torna a fare l’avvocato. Assicurato un “niet” della Russia al terzo giro di sanzioni contro l’Iran previsto tra qualche giorno al Consiglio di sicurezza dell’Onu, e per di più Putin ha prenotato un aereo per Teheran il 16 ottobre, per partecipare con Ahmadinejad al vertice dei paesi del Caspio.

Dopo aver dato segnali di collaborazione – ha bloccato di fatto la costruzione della centrale nucleare a Busher – Mosca torna a difendere gli iraniani e a opporsi agli occidentali. E’ ormai la sua politica abituale, anche in casi dove gli interessi russi non sembrano in gioco come è successo con il rifiuto di condannare la giunta militare in Birmania. Mosca di fatto aiuta e alimenta direttamente tutti i focolai di tensione, tutti i paesi problematici, tutte le minacce presenti e future, dal Kosovo al Venezuela di Hugo Chávez alla Siria di Basher al Assad. Potrebbe sembrare la riedizione dei numerosi tentativi di Mosca di mediare tra i “cattivi” e l’occidente, vantando legami politici storici come nel caso degli arabi o dei nordcoreani o nuove affinità politico-commerciali come nel caso degli iraniani. Ma non lo è. La tecnica del fare i “non occidentali” per conto dell’occidente finora non ha mai funzionato (anche perché per al Qaeda e Hamas i russi sono altri “crociati”, ai quali far scontare la guerra in Cecenia), e Putin non ha mai convinto né Kalhed Meshaal, né Kim Jong Il di nulla, ammesso che ci abbia provato.

Le azioni del Cremlino però salgono, quelle politiche ma soprattutto quelle petrolifere. In un mondo stabile, come quello alla fine degli anni Novanta, Mosca politicamente era nelle ultime file ed economicamente in una crisi senza fondo. Se Putin oggi può contare di rimanere al potere anche dopo otto anni al Cremlino, costruendo una sua monarchia personale, lo deve a Osama bin Laden, alla nuova potenza della Cina, e ora anche a Mahmoud Ahmadinejad, ogni uscita bellicosa del quale fa alzare il prezzo del petrolio. Per un paese come la Russia, che ha un’economia da emirato arabo, il prezzo del barile è il termometro che detta la temperatura politica. Negli anni Settanta della crisi energetica Breznev puntava le testate nucleari e invadeva l’Afghanistan, negli anni Ottanta l’avvento delle utilitarie in Europa ha portato Gorbaciov.

Gli anni Novanta, con il petrolio sui 15 dollari, hanno spinto Eltsin a inseguire l’occidente, mentre l’alba del putinismo coincide con la soglia strategica dei 21 dollari a barile. Il greggio russo si nasconde in Siberia, il costo dell’estrazione è di circa 12 dollari a barile (quattro volte più che in Arabia Saudita), e siccome i giacimenti e gli oleodotti non si possono chiudere sotto un certo prezzo la produzione non riesce nemmeno a pareggiare i conti. La dittatura è un lusso che si paga, e la correlazione tra i periodi di liberalizzazione al Cremlino e il costo del greggio non si è mai smentita negli ultimi 40 anni.

Non c’è più ideologia

Un teorema al quale oggi si aggiunge una variabile: il Cremlino si muove senza ideologie (o quasi). I sovietici vendevano petrolio all’occidente ma lo regalavano agli “amici” come Fidel Castro. Oggi in Russia c’è un presidente che snocciola a memoria pozzi, stazioni di pompaggio e centrali di smistamento e ricorda ogni rubinetto del gas e del petrolio da Vladivostok a Berlino. Pure la mappa dei viaggi di Putin degli ultimi mesi segue le rotte degli idrocarburi: Qatar, Algeria, Kazakistan, Grecia (con inaugurazione del gasdotto). Parla di gas e petrolio dovunque vada, una sorta di superministro dell’energia che non delega a nessuno i negoziati sui contratti. Ma petrolio e gas in Russia non bastano più alle ambizioni della “superpotenza energetica” e ora Putin vorrebbe farsi anche broker delle risorse degli altri. Con le ex colonie in Asia centrale ci è già riuscito, adesso potrebbe essere la volta dell’Iran, sempre più stretto nella morsa dell’embargo.

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