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STATI UNITI IN GUERRA, NIENTE RECESSIONE

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(WSI) –
«L’America non corre un rischio immediato di recessione – afferma Lawrence Klein, premio Nobel per l’economia del 1980 – la nostra è infatti un’economia di guerra dove, per esempio, la caduta verticale dei prezzi immobiliari può essere compensata dalla domanda di armamenti e nell’occupazione delle nostra gioventù al fronte». È quasi un pugno nello stomaco la prima affermazione del grande economista, ma va subito detto che non è l’unico a pensarla in questo modo. Insiste Klein: «I miei modelli suggeriscono una crescita sotto la media nel secondo semestre 2007, e analoga nei mesi invernali del 2008, compresa fra il 2 e il 3 per cento».

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A suo giudizio, la Federal Reserve ha risposto correttamente alla frenata?
Direi di sì, sebbene credo che abbia aspettato un mese di troppo.
Vede altri tagli?
L’esito della prossima riunione del 30 di ottobre non è scontato. Ci sono segnali contraddittori: qualche dato lascia presagire una congiuntura sufficientemente buona, che potrebbe stabilizzarsi da sé. Al massimo ci sarà una sforbiciata di 25 punti base».

Il settore immobiliare è in recessione: i problemi si allargheranno all’intera economia?
In un quadro normale sarebbe così. Ma noi siamo in un’economia di guerra, e molti fanno finta di dimenticarsene. I giovani entrano nell’esercito e le esigenze belliche generano una domanda propria che fa da puntello all’attività produttiva. Non nego che ci sia l’eventualità di una recessione, ma non lo ritengo lo sbocco più probabile.

Lei ripete da anni che il dollaro avrebbe perso valore sotto l’urto dei deficit gemelli e dello sforzo militare in Iraq. Ricordo di una intervista che le feci a Filadelfia: il dollaro valeva più di un euro, adesso viaggia a quota 1,43. Eppure il Fondo Monetario ha argomentato in settimana che il calo del biglietto verde non è ancora finito. Professor Klein, è del medesimo parere?
La posizione del bilancio federale è un po’ migliorata. Però le spese militari rimangono la vera Spada di Damocle sul capo del dollaro. È difficile che una nazione in guerra possa accompagnarsi a una moneta forte, perciò sono favorevole a un sentiero di graduale deprezzamento della divisa, anche se ho minori convinzioni rispetto agli anni passati, per via del miglioramento sul fronte del bilancio federale.

La riunione del G7 è appena iniziata. Quali argomenti vedrebbe bene al tavolo della discussione?
Ce ne sono aleno due che vorrei discutere. Primo, credo che stiano maturando i tempi perché alcune Banche centrali, come la Federal Reserve, la smettano di concentrarsi sul tasso d’inflazione «core», ossia quello depurato dagli alimentari e dall’energia, e prendano di petto l’inflazione complessiva.

Perché dovrebbero farlo?
Glielo spiego subito: si è arrivati a parlare di inflazione «core» sull’idea che le componenti alimentari e energetiche possano fluttuare in modo vigoroso, ma attorno al trend generale. In pratica si voleva evitare che sussulti erratici delle derrate o dei carburanti fuorviassero le autorità nelle loro scelte di politica economica. Adesso, però, tutte le risorse di base sono fermamente orientate al rialzo, sicché escluderle dai conteggi si traduce nell’abbassare sistematicamente il tasso d’inflazione.

E secondo Lei si andrà nella direzione auspicata?
In privato molti banchieri e molti economisti ne discutono. Mi auguro che il nodo venga affrontato alla luce del sole.

Poco sopra accennava ad un secondo punto…
Bè, qui so di essere molto più isolato. Troppe Banche centrali, per esempio quella europea, si limitano per statuto a fissare un obiettivo d’inflazione e a perseguirlo. Si ritiene che la crescita, in questo humus fertile, verrà da sé. Io sono un po’ scettico, e mi piacerebbe vedere certi istituti monetari adoperarsi con maggiore energia nel promuovere i settori reali dell’economia.

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