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(WSI) – Negli ultimi tre giorni
hanno fatto tappa
a Shangai Nicolas
Sarkozy, in
qualità di testimonial
dell’industria aeronautica,
David Beckam, ambasciatore
di Motorola, Paris Hilton,
su invito di Mtv. E Marco
Tronchetti Provera, per
presentare il calendario Pirelli,
dedicato quest’anno alla
città più dinamica del pianeta.
L’Asia, in termini di interscambio,
s’avvia a diventare
per le imprese italiane importante
quanto il Nord America,
se non di più.
La competizione tra Italia e
Francia si accende sulle rive
dello Huangpu: la Commanderie
de Bordeaux ha tenuto
una grande festa nel cuore di
quella che fu la legazione
francese, oggi centro chic della
megalopoli. L’Italia reagisce
nel week end con una
spedizione di Vinitaly che culminerà,
la sera di sabato, in
una cena offerta dalla «compagnia
del Bordello». Forse
si tratta del consorzio del
Brunello, ma sullo Shangai
Daily hanno scritto così:
scherzi della lingua, o lapsus
freudiano degli «espatriati»
(che fa più fine di emigrati) di
casa nostra.
Ma bando alle battute da caserma.
Il mondo visto da
Oriente non assomiglia affatto
a quello che si legge sulle
gazzette nostrane, anche le
più prestigiose, dove l’universo
finisce, come in una cartina
medievale, alle colonne
d’Ercole di Piazzetta Cuccia.
Al di là dello steccato ci sono
storie quasi incredibili ai nostri
occhi, come i racconti di
Marco Polo per i suoi contemporanei.
Basta aprire un giornale:
a Shangai dove hanno finito
con sei mesi di anticipo il
ponte sullo Yangtze (alto
212 metri) che collegherà la
metropoli con le due isole di
Chongming e Changxin, ultima frontiera
di sviluppo della
città. La locomotiva va.
E, quel che più conta per
noi, l’Italia ha finalmente
staccato un biglietto per partecipare
alla missione: anno
2008, come non farsi contagiare
dalla recessione made
in Usa. Un male insidioso che
non si cura solo con l’indispensabile
medicina del taglio
dei tassi, necessaria per
sostenere il mercato azionario,
ma che richiede una delicata
opera di ricostruzione
dei rapporti di forza internazionale.
In questa cornice, non è
certo un caso che la ripresa del
mercato abbia coinciso con l’ingresso,
come primo azionista, di
Abu Dhabi in Citigroup, poco sopra
il principe Al Waleed. Nel
2001 Rudolph Giuliani, allora
sindaco di New York, rifiutò i 10
milioni offerti dal principe per le
vittime dell’11 settembre perché
l’omaggio di Al Waleed era
accompagnato da una dichiarazione
politica «equivoca».
Oggi l’aiuto degli sceicchi alla
banca ferita dai subprime coincide
con la ripresa dei negoziati di
pace ad Annapolis tra israeliani
e palestinesi. E, sarà, un caso,
tutto avviene all’ombra di uomini
di Goldman Sachs (Robert
Rubin, Hank Paulson e il capo
della segreteria di Bush). Tra
politica, finanza ed economia il
legame è sempre più stretto, anche
perché i problemi, ai tempi
dell’economia globale, non conoscono
confini. Meglio non dimenticarlo,
perché il provincialismo
è davvero il peccato capitale
ai giorni nostri.
Da quel punto di vista è emblematica
la storia di Sace, società
pubblica di assicurazione dell’export
che, nel giro di pochi anni,
si è trasformata in uno strumento
dinamico a sostegno del
business delle nostre imprese,
sulla base del modello di Coface
ed Euler, i concorrenti francesi
e tedeschi che in questi anni
hanno svolto un marketing aggressivo
ed efficace anche nella
Penisola, approfittando dei ritardi
passati del competitor pubblico
che oggi ha recuperato il passo
dell’economia globale, oltre
che restituire all’azionista pubblico
cifre ragguardevoli come
dividendo e capitali.
Tommaso
Padoa-Schioppa ha avviato da
pochi giorni l’iter per la quotazione
della società, che promette
di essere la privatizzazione di
maggior rilievo degli ultimi anni.
E ci sarà tempo e modo per
parlare del futuro di questa società.
Ma ora è forse il caso di
spendere una parola su un’avventura
«bipartisan» (iniziata ai
tempi del governo Tremonti,
completata sotto la cura del viceministro
Tononi) che ha preso
il via da una grande disgrazia.
All’inizio del turnaround, infatti,
Tremonti fornì in dote alla
Sace i crediti, ai tempi quasi inesigibili,
accumulati dalle imprese
italiane con la Russia di Eltsin
in odore di default. Quei crediti
incagliati, a mano a mano
che s’infiammava il prezzo del
petrolio, sono diventati il serbatoio
di benzina su cui Bini Smaghi
e Castellano hanno potuto
mettere a punto il turnaround.
Non tutto il male, insomma,
vien per nuocere.
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