Essere ansiosi e guardare alle performance giornaliere porta i risparmiatori a commettere errori. L’investimento nei private markets consente ai consulenti di far fronte all’impulsività dei loro clienti
di Ruggero Bertelli
Uno dei concetti ai quali i consulenti finanziari sono più legati nella costruzione di portafogli di investimento tradizionali è la “liquidità” dello strumento. Viene infatti presentato come un grande vantaggio per l’investitore il fatto di poter “liquidare” l’investimento in qualunque momento, in caso di necessità. Per un portafoglio complesso come quello di un fondo comune, questo elemento non è banale. La liquidità della quota è il frutto di una caratteristica strutturale e contrattuale del veicolo, che ha ricadute sui costi amministrativi e pone alcuni importanti vincoli nella gestione.
La differenza tra prezzo e valore.
La liquidità dello strumento, intesa come “liquidabilità” da parte dell’investitore, pone però alcuni problemi di tipo comportamentale, che vale la pena di richiamare. Essa, infatti, viene associata alla continua disponibilità di un market value rispetto al quale poter valutare lo strumento. Questo significa che la liquidità diventa “prezzo”. Con tutte le conseguenze che questo comporta per la percezione dell’investitore.
La confusione tra prezzo e valore è la fonte di molti comportamenti errati, sia in acquisto che in vendita, lo sappiamo. La disponibilità di prezzi quotidiani, accessibili, vicini oscura inevitabilmente il “valore”, ben più nascosto e costoso. Quando il prezzo si allontana dal valore ci sono opportunità, ma prevalgono le minacce comportamentali. L’investitore percepisce premi per il rischio su posizioni che non ne hanno (o non ne hanno più) e viceversa, non vede il premio per il rischio che determinati strumenti hanno, in prospettiva.
Il prezzo favorisce indubbiamente un approccio di “framing ristretto”, rispetto ad un approccio basato su un “framing ampio”. Associando questa tendenza alla “avversione alle perdite” (le perdite contano il doppio dei guadagni per la nostra mente), giungiamo all’analisi che Kahneman propone del problema di Samuelson: “Si sa che Paul Samuelson (…) una volta chiese a un amico se avrebbe accettato di fare, lanciando una moneta, una scommessa in cui avrebbe potuto perdere 100 dollari o vincerne 200. L’amico rispose: non desidero scommettere, perché perdere 100 dollari mi brucerebbe più di quanto non mi rallegrerebbe vincerne 200. Ma ci sto se mi prometti di lasciarmi fare cento scommesse del genere”.
Il vantaggio del lungo periodo.
Il “framing ampio” è una soluzione che ci consente di vedere i vantaggi di opzioni rischiose che nascondono ai nostri occhi un premio per il rischio, che pure è chiaramente presente. Kahneman trae queste provocatorie conclusioni: “la combinazione di avversione alla perdita e framing ristretto è una costosa iattura.
I singoli investitori possono evitare tale iattura (…) riducendo la frequenza con cui controllano quanto stia andando bene il loro investimento. Seguire da vicino le fluttuazioni quotidiane è un’idea perdente, perché il dolore delle piccole perdite frequenti supera il piacere degli altrettanti frequenti piccoli guadagni. Una volta al trimestre è forse più che sufficiente per i singoli investitori”. Inoltre, aggiunge poco dopo: “Un impegno a non modificare la propria posizione per lunghi periodi (l’equivalente dell’immobilizzare un investimento) migliora la performance finanziaria”. Qual è una naturale soluzione che possiamo proporre al nostro emotivo investitore? Valore non quotato. Solo un framing ampio consente di valutare un investimento in private markets, per sua natura immobilizzato, per sua natura non esposto alla condanna del prezzo di mercato. Emotivamente perfetto per cogliere le opportunità dell’assunzione di rischio.