Qualora Donald Trump dovesse vincere le elezioni presidenziali statunitensi tra meno di una settimana, gli Stati Uniti diverrebbero un altro paese occidentale governato da forze considerate populiste, spesso con posizioni di estrema destra, che oggi sono al potere (o lo sono state) nei Paesi Bassi, in Austria, in Italia e in numerose nazioni dell’Est Europa e che si stanno presentando come favorite alle prossime elezioni in Francia e in Germania.
Questo fenomeno, che sta assumendo sempre di più i tratti di un trend di lungo corso, è figlio della crescente polarizzazione delle forze politiche, a sua volta dovuta all’evoluzione del panorama dei mass media, e deve spingere tutti gli stakeholder a prestare particolare attenzione a elezioni e referendum, dato che i risultati di questi potrebbero avere un peso molto consistente sulla direzione che prenderà il mondo di domani. Infatti, la contrapposizione di forze sempre più estremizzate e la progressiva scomparsa di posizioni considerate centriste hanno portato nei programmi elettorali tematiche che fino a pochi anni fa erano considerate taboo. Inoltre, in futuro anche principi largamente accettati come il dover avere bilanci sani, il libero scambio, la lotta ai cambiamenti climatici e il dover avere delle banche centrali indipendenti dalla politica potrebbero essere messi in discussione.
Tuttavia, noi di LGIM non pretendiamo di indirizzare le opinioni dei cittadini su tematiche che ognuno deve valutare secondo la propria coscienza. Piuttosto, in qualità di investitori responsabili, vogliamo esaminare quali potrebbero essere i possibili effetti di breve e di lungo termine di una ulteriore avanzata a livello globale di queste forze politiche, basandoci su quelle che sono le caratteristiche che li accomunano. Infatti, a livello economico-finanziario, quasi tutti i populismi basano i loro programmi su una politica fiscale molto espansiva, che, se dovesse essere applicata da un buon numero di grandi nazioni, potrebbe diventare un driver di primaria importanza, cui i mercati devono tenere conto.
Nel breve periodo, ovvero quando le misure governative rappresentano la discriminante principale dell’andamento dei mercati, sappiamo che gli stimoli fiscali hanno effetti sulla crescita, sull’inflazione e sulla politica delle banche centrali. Collocando tutto ciò nel contesto attuale, in cui le economie stanno vivendo un rallentamento della crescita, ma non particolarmente marcato, le banche centrali potrebbero scegliere di sacrificare quest’ultima per combattere l’inflazione che scaturirebbe da una fiscalità espansiva, con i mercati azionari che subirebbero delle pressioni al ribasso per via dei maggiori tassi d’interesse. Tuttavia, se l’outlook economico dovesse peggiorare e le misure populiste fossero sostenute anche dalla politica monetaria, allora le azioni ne beneficerebbero.
Per quanto riguarda gli effetti di lungo periodo, invece, gli effetti finali di un governo populista sembrano meno opachi di quelli descritti nel paragrafo precedente. Infatti, uno studio della American Economic Review, pubblicato nel 2023, mostra che i costi per l’economia generati da questo tipo di amministrazioni sono alquanto elevati. Da questa ricerca, che si basa su un campione di 51 presidenti o primi ministri considerati populisti che hanno governato tra il 1900 e il 2020, emerge che dopo 15 anni il Pil pro-capite è inferiore del 10% rispetto al livello che si sarebbe raggiunto qualora ci fossero stati governi non populisti. Inoltre, lo studio evidenzia anche come alcuni dei lasciti più ricorrenti di queste esperienze di governo siano deficit di bilancio elevati e isolamento commerciale, con una crescita realizzata inferiore a quella attesa.