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LEZIONI AMERICANE

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(WSI) – E’ una crisi nata al di là dell’Atlantico. Ma è l’economia europea, non quella americana a essere entrata in recessione.

Abbiamo letto che «il modello americano, incalzato da una logica di mercato competitiva e quasi spietata, si è manifestato per quello che è, un fallimento: meglio le nostre banche che si fanno carico della loro responsabilità sociale» (cioè di salvare Alitalia). Eppure sono le nostre economie a fermarsi, i nostri ricercatori a emigrare oltre Atlantico: gli Stati Uniti continuano, seppur rallentando, a crescere e ad attrarre intelligenze dal resto del mondo.

Le crisi in America sono ricorrenti. Negli anni ’50, ai tempi dello Sputnik, fu la paura di essere superati dall’Urss, negli anni ’80 dai giapponesi; nel ’75 fu il Watergate e la sconfitta in Vietnam; nel 2002 lo scandalo di Enron, oggi lo smarrimento di un Paese diviso sull’Iraq e preoccupato per l’economia e per il valore delle proprie case. Ma ogni volta l’America reagisce.

Osserva l’Economist: «Così come il capitalismo americano favorisce il fallimento delle aziende decotte e la loro pronta sostituzione con imprese nuove, con altrettanta rapidità reagisce il sistema politico. In Europa i leader emergono a fatica e durano a lungo; negli Stati Uniti le primarie consentono a faville sorte quasi dal nulla di trasformarsi in men che non si dica in coscienza collettiva» e talvolta in presidenti.

Forse questa volta neppure gli Usa sfuggiranno alla recessione, ma certamente il governo sta facendo di tutto per evitarla. La Federal Reserve ha lasciato perdere l’ideologia e ha salvato le banche per evitare il rischio di fallimenti a catena. Nei mesi scorsi ciascuna famiglia ha ricevuto un rimborso fiscale di circa mille dollari: abbastanza per consentirle di difendere il tenore di vita, anche con la benzina balzata a 4 dollari il gallone. E già si prepara un secondo rimborso. E infatti, per ora, i consumi tengono.

E noi che facciamo per uscire da una recessione che, diversamente dagli Usa, qui è già iniziata? Il ministro dell’Economia è stato fra i primi a evocare il pericolo di una crisi simile a quella del ’29. E tuttavia egli rischia di ripetere gli errori di Herbert Hoover, il presidente che, nel tentativo di raggiungere il pareggio di bilancio nel mezzo di una recessione, creò le premesse per la grande depressione.

La bussola di Giulio Tremonti è il pareggio di bilancio. Per raggiungerlo il Dpef prevede che la pressione fiscale rimanga invariata per un triennio, al livello elevatissimo al quale l’aveva lasciata Prodi. E invece — come ha spiegato con grande chiarezza Guido Tabellini sul Sole 24 Ore del 6 luglio — ciò che servirebbe è un’energica riduzione delle tasse sul lavoro.

La via maestra sarebbe quella di una riduzione delle spese correnti più coraggiosa di quella prevista nel Dpef (solo un punto e mezzo di Pil in tre anni, con una spesa che nel 2011 sarà ancora di un punto più elevata rispetto a 10 anni fa). Ma non c’è bisogno di azzerare il deficit nel 2011: di fronte a una recessione, le regole europee consentono di spostare in là il pareggio di bilancio, soprattutto se ciò serve per ridurre le tasse. La misura dello scostamento dipende dalla propria credibilità, e qui temo che Giulio Tremonti sconti un po’ lo scetticismo verso l’Europa che egli manifesta nei suoi libri.

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