Società

SCALDABAGNI E MERCEDES

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(WSI) – La svolta “epocale” in America c’è già stata a novembre, ma poi i dati di dicembre hanno riportato tutto indietro e quindi bisognerà aspettare gennaio (o, al massimo, febbraio) per avere una conferma netta. A novembre era successo che l’economia americana, dopo 23 mesi di crisi, aveva smesso di bruciare posti di lavoro. Lontani i tempi in cui liquidava mezzo milione di posti di lavoro al mese, a novembre ne aveva addirittura prodotti 4 mila. Il numero dei nuovi assunti, cioè, era stato superiore a quello dei licenziati.

Gli esperti si aspettavano per dicembre un risultato neutro, invece sono stati persi ancora 85 mila posti di lavoro. Ma la svolta, dicono gli economisti, a questo punto è veramente dietro l’angolo. A partire da gennaio (o, alla peggio, da febbraio) gli Stati Uniti chiuderanno il capitolo di licenziamenti di massa per passare a una politica di graduale incremento dei posti di lavoro.

A quel punto si potrà davvero dire che la fase critica si è chiusa e che per l’America il problema consiste nel recuperare il terreno perso. Consiste, in una parola, nel ritrovare quei milioni di posti di lavoro che sono stati persi dentro la Grande Crisi.

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Se gennaio confermerà, però che il rogo di posti di lavoro è finalmente finito, sarà difficile non accettare il fatto che la maggiore economia del mondo è entrata in una fase nuova, meno critica. Dopo di che sarà ancora troppo presto per dire che la crisi è finita: la disoccupazione rimane stabilmente intorno al 10 per cento e, forse, aumenterà persino di qualche altro decimale. Ma, in ogni caso, bisognerà riconoscere che un sistema che non distrugge più posti di lavoro, ma ne crea, sia pure molto lentamente, è qualcosa di molto diverso. Si tratterà, probabilmente, del segnale più grosso che le cose stanno veramente cambiando da quelle parti.

I rigoristi potranno aggiungere che l’economia americana è ancora molto drogata, piena cioè di sostegni pubblici, e questo è vero. Ma quelli c’erano anche prima, quando scomparivano mezzo milione di posti di lavoro al mese.

Il ritorno alla normalità sarà comunque lento. L’occupazione è infatti una sorta di “indicatore ritardato”. In pratica, è l’ultima cosa che va a posto. Il meccanismo per cui questo accade è, purtroppo, abbastanza chiaro. Non appena arriva la crisi, le imprese si mettono in formazione da combattimento, riducendo molto rapidamente l’occupazione e le scorte, e quindi i posti di lavoro saltano con molta facilità. Poi, quando il vento gira, le stesse imprese, prima di assumere di nuovo, le provano tutte: straordinari, doppi turni, e altre diavolerie. L’occupazione, quindi, torna sui livelli pre-crisi non a crisi finita, ma quando della crisi si è perso proprio anche il ricordo.

Tutto questo, ovviamente, vale per gli Stati Uniti, ma, con qualche variante, vale anche per l’Europa e per l’Italia. Anche qui, il riassorbimento della disoccupazione sarà molto lento.

Su tutti, poi, grava un interrogativo. Comincia a farsi strada l’idea che nel dopo-crisi molto probabilmente cambierà lo schema mondiale dei consumi. Nel senso che usciranno (o ridurranno il loro peso) “vecchi consumatori” (quelli americani, sopratutto) mentre ne arriveranno di nuovi, i quali avranno ovviamente una lista della spesa diversa. Poiché i nuovi saranno soprattutto gli abitanti dei paesi emergenti, è possibile che il nuovo schema mondiale dei consumi preveda qualche Mercedes (o Bmw o Porsche) in meno e qualche scaldabagno in più. La velocità della ripresa, in America e in Europa, dipenderà anche dalla rapidità con la quale le imprese delle varie aree sapranno individuare i nuovi consumi, adattandovi le loro produzioni.

Il “nuovo”, insomma, rischia di essere un po’ più complicato di quello che, forse, sarebbe stato logico attendersi. E potrebbe essere utile cominciare a pensarci subito.

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