(WSI) – Il principale effetto collaterale dell’affermazione leghista nel nord sarà un rafforzamento di Giulio Tremonti dentro il governo. Da quando il ministro dell’Economia è andato ad Arcore con la lettera delle dimissioni in tasca e Umberto Bossi a fianco, il 24 novembre, è esplicito che Tremonti è il sigillo sull’alleanza tra Pdl e Lega Nord. In quelle settimane Tremonti era vicino all’addio, sotto pressione da parte dei finiani e di un gruppo di ex Forza Italia che pretendevano un taglio delle tasse o un aumento della spesa in Finanziaria, così da preparare il terreno per le Regionali. Tremonti si oppone: finché c’è lui i conti pubblici non si distruggono. Già così, senza muoversi troppo, il debito è al 118 per cento, il deficit al 5,3. Quindi, se Berlusconi vuole tagliare le tasse, dovrà trovarsi un altro ministro disposto a farlo. A novembre la copertura politica di Bossi ha permesso a Tremonti di resistere. E adesso quella sponda è ancora più solida.
La prima conseguenza è che Tremonti godrà del sostegno della Lega nella prossima occasione decisiva per la finanza pubblica: la stesura del Dpef, il documento di programmazione economica e finanziaria che prima dell’estate dovrà definire l’entità della manovra (da settembre, al posto della vecchia Finanziaria ci sarà la “legge di stabilità”, ma i giochi veri si decidono a luglio). Visto che l’Unione europea ha bocciato l’eccessivo ottimismo delle stime di crescita presentate dal governo – al massimo l’Italia registrerà un +1 per cento – serviranno almeno 20 miliardi per rispettare gli impegni presi con l’Europa – e, tacitamente, con i mercati finanziari – per tenere deficit e debito sotto controllo. Dove trovarli? O si alzano le tasse o si tagliano le spese. La strada più percorribile è quella di inserire un intervento su entrambi i fronti nell’ambito del federalismo fiscale: la Lega non si opporrà a interventi che scaricano il peso della manovra correttiva su lavoratori dipendenti e sulle Regioni con una spesa sanitaria fuori controllo (quelle della Padania emersa dal voto, Lombardia, Piemonte e Veneto, sono in regola). Silvio Berlusconi, che si è appena impegnato a trovare all’occorrenza anche un paio di miliardi per sostenere la Grecia, non potrà opporsi. E la Lega potrà presentare al suo elettorato un intervento poco popolare in quasi tutto il Paese come un successo.
L’alleanza tra il ministro di Sondrio e il nuovo blocco leghista si consoliderà poi a livello bancario. Il neo-governatore del Veneto Luca Zaia lo ha già fatto capire in campagna elettorale con un’intervista alla Reuters: “Vigilerò sui soldi dei veneti”. Che significa una cosa precisa: da ieri tutte le amministrazioni locali che nominano i consiglieri delle fondazioni bancarie (azioniste delle grandi banche, come Unicredit e Intesa Sanpaolo) hanno in lui e Roberto Cota, che guiderà il Piemonte, un solido riferimento. L’obiettivo è che il credito resti sul territorio, abbandonando velleità di apertura internazionale, garantendo finanziamenti alle piccole imprese anche a scapito dei dividendi per gli azionisti. E anche su questo si verifica una coincidenza di interessi: i leghisti possono contare sulla copertura politica di Tremonti che, a sua volta, sfrutterà la vittoria di Cota e Zaia per ridimensionare il potere di banchieri poco graditi (come Alessandro Profumo di Unicredit) e allargare la sua influenza sul settore del credito.
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