Anno 2009: il fintech sbarca in Italia. Un periodo in cui le istituzioni finanziarie tradizionali erano alle prese con una crisi e conseguente perdita di fiducia da parte dei clienti dopo il grande crack di Lehman Brothers e l’ondata di toxic assets guidata dai mutui subprime.
Questo periodo ha favorito la collaborazione tra esperti di tecnologia e finanza, portando all’emergere di nuove idee quali prestiti fra pari (peer to peer lending), la cessione dei crediti commerciali (invoice trading), l’anticipo dinamico dei pagamenti ai fornitori (dynamic discounting), sino alla tecnologia applicata alle assicurazioni (insurtech). I comuni denominatori erano due: l’uso intensivo della tecnologia per un percorso completamente digitale e soprattutto rapido e la disintermediazione rispetto al mondo del credito tradizionale.
Il momento era propizio, le banche erano alle prese con problemi enormi: credit crunch, scarsità di mezzi propri e modelli di business tradizionali caratterizzati da scarsa innovazione. Sono passati ben 14 anni da allora. Cosa è successo? Il mercato del credito erogato dalle fintech è rimasto marginale, per chi opera nel mondo delle imprese è fenomeno di palmare evidenza; infatti, nel 2021 si sono toccati i 3,6 miliardi di euro di crediti erogati alle imprese italiane (si tenga conto che una media Bcc eroga da sola crediti per un importi similari). Perché un così scarso sviluppo nonostante gli evidenti vantaggi e gli esempi internazionali di successo quali il mercato inglese? I motivi principali sono due: gli algoritmi di selezione e il pricing.
Cosa è successo
Le fintech di matrice creditizia crearono un modello di business basato sulla velocità e quindi su modelli di valutazione delle imprese che dovevano necessariamente essere rapidi ed il più possibile automatizzati. Risultato: algoritmi a maglie molto strette e selezione solo dei migliori prenditori i quali tuttavia non avevano certo problemi di accesso al credito sui canali tradizionali.
Veniamo al pricing: le fintech certo non potevano finanziarsi con raccolta a basso costo da conti correnti (fattispecie riservata alle banche) e quindi dovevano contare su fonti più costose (es. cartolarizzazioni) una volta esauriti i mezzi propri; altresì il credito veniva assicurato per limitare i rischi, tuttavia, incrementando ancora i costi. Infine, il servizio va remunerato e la velocità delle fintech si traduceva in un premium price applicato alla clientela. Risultato: costo del credito offerto alle imprese a tassi molto più elevati rispetto al canale tradizionale. È immediato dedurre che se si offre credito solo ai migliori e a prezzi più elevati rispetto alla concorrenza si restringe il mercato enormemente sino a non trovare spazio per raggiungere il break even. E perché in Uk il mercato fintech è invece esploso? Per un semplice motivo, le banche inglesi prestano a tassi molto elevati, così alti da lasciare spazio alle fintech e al loro modello di business.
Il futuro del fintech
Che futuro attende allora il fintech? Dobbiamo dichiarare l’esperimento chiuso? Assolutamente no. Il fintech è vivo, qualche operatore si è perso lungo la strada ma molti hanno cambiato pelle. Ha cercato spazi dove il denaro è più costoso e con rischi più parcellizzati ovvero il mondo del buy now – pay later; si è trasformato da fornire di denaro a fornitore di servizi puntando sulle soluzioni software di open banking ed i servizi di bank as a service, si è “bancarizzato” assumendo la forma delle challenger/neo banks che operano con vera e propria licenza bancaria ma con matrice del tutto digitale. Il processo innovativo è vivace, il mondo dei venture capitalist è ancora molto interessato al settore. Il fintech ha in serbo ancora parecchie soprese da svelarci.
L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di dicembre del magazine Wall Street Italia. Clicca qui per abbonarti.
di Ivan Fogliata