*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
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(WSI) – Come era facile investire nel 2003 e 2004. Valutazioni compresse, politiche fiscali espansive, politiche monetarie così aggressive da essere quasi temerarie, materie prime a livelli secolarmente bassi, output gap così maestosi da fare sembrare l’inflazione debellata per sempre, come il vaiolo. Come è diventato difficile investire dal marzo 2007. Output gap quasi azzerati (anche nei paesi emergenti), politiche fiscali e monetarie incerte e molto meno accomodanti, premi al rischio ridotti, squilibri strutturali marcati (il disavanzo americano delle partite correnti è pari all’1.5 per cento del Pil mondiale). E poi lo scoppio di una bolla immobiliare le cui conseguenze, come ebbe a dire Bernanke in Congresso nel marzo scorso, ci accompagneranno per tutto quest’anno e per tutto il prossimo.
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Nella psiche dei mercati quest’ultimo aspetto, la lunga durata della crisi delle case e il perdurare per almeno un altro trimestre (forse due) della crisi dei crediti, è andato gradualmente sfumando fin quasi a scomparire nel corso del grande recupero che ha portato l’S&P 500 da 1390 a metà agosto fino a 1567 dieci giorni fa. Nel corso del rialzo si è creato un insieme quasi intossicante di elementi oggettivamente positivi uniti ad aspettative viranti decisamente sul rosa. L’idea di una Fed benevola e generosa non solo per quest’anno ma anche per il prossimo. Il considerare acquisita la politica accomodante proprio mentre i dati macro di tutto il mondo, nei due mesi passati, hanno confermato la crescita eccellente dell’Asia, la forza dell’Europa e la bella performance del grande malato, gli Stati Uniti (con un terzo trimestre sopre il 3 per cento). L’idea che con un energico write down dei crediti dubbi nei bilanci delle banche del terzo trimestre la crisi delle istituzioni finanziarie era già risolta, così, con uno schiocco di dita.
Per finire, l’idea che il rialzo di azioni e crediti era esso stesso balsamo e medicamento per l’economia reale, ricreando velocemente nelle imprese la voglia di investire e di assumere e nel pubblico quella di consumare.
Negli ultimi giorni, all’entusiasmo (o, più prosaicamente, alla necessità di ricoprire le posizioni short e di irrobustire i portafogli sottopesati) è subentrata la percezione che la realtà è complessa. Proprio mentre Goldilocks stava tornando sulla bocca di tutti si è dovuta constatare una serie di fatti poco esaltanti. La crescita americana, per cominciare, sta rallentando, come conferma il Beige Book appena pubblicato. Nessun rallentamento era stato mai più preannunciato di questo, ma vederlo lì, sotto gli occhi, non fa piacere. Anche perché in questi casi non mancano mai quelli che dicono che il rallentamento è la breve anticamera della recessione (e borsa ai massimi e recessione non si conciliano).
Poi la sistemazione faticosa e lenta dei crediti che il mercato rifiuta di rinnovare e che ricadono quindi sulle banche (mutui, LBO e cartolarizzazioni di ogni tipo). E ancora il fatto che nell’aria si sente ancora ristagnare l’odore del credit crunch, tanto che il Tesoro americano deve sospendere le regole sul capitale minimo delle banche (permettendo loro di accollarsi i crediti dei Siv per la bellezza di 80 miliardi senza usare un solo dollaro di capitale) per evitare la chiusura di linee di credito alle imprese o al consumo (o il finanziamento dei pochi nuovi mutui che si accendono ancora). E infine la sensazione, corroborata da dichiarazioni delle banche stesse, che di write down ce ne saranno ancora (e alcuni anche abbondanti) nel quarto trimestre e forse anche l’anno prossimo.
E’ quindi troppo banale descrivere il risveglio dal sogno di questi giorni come un fisiologico consolidamento. E’ qualcosa di più, che assicura un percorso accidentato anche nelle prossime settimane, quanto meno fino a Thanksgiving. Detto questo, riteniamo che il mercato avrà la forza per farsi una ragione della complessità del quadro generale e che sarà in grado di accettare una crescita americana più bassa per il quarto trimestre (tra l’1.5 e il 2 per cento) senza lasciarsi andare a crisi di nervi. I bilanci delle banche che usciranno a gennaio verranno alla fine accolti bene come sono stati accolti bene quelli pubblicati in questi giorni, con l’idea, cioè, che i write down non saranno eterni e che a un certo punto lasceranno il posto a rivalutazioni.
Quanto alla crisi delle costruzioni, va ricordato che meno si costruisce meglio è. Giova qui ricordare la linea di ragionamento di Greenspan. Finché si costruiscono più case di quelle che si vendono, dice, i prezzi non possono che scendere. Se scendono, aumentano i default degli inquilini e le restituzioni delle case alle banche che a loro volta le mettono in vendita, facendo scendere ancora i prezzi in un circolo vizioso. Con il corollario ben noto di un effetto ricchezza negativo, con compressione dei consumi e possibilità concreta di recessione. Se dunque si costruisce poco, tanto meglio.
A sostenere il mercato (e a dargli la forza per un rialzo di fine anno verso nuovi massimi) sarà anche l’atteggiamento delle banche centrali, con la Bce che rimarrà rigorosamente immobile e la Fed che abbasserà ancora i tassi. Negli ultimi giorni case come JP Morgan hanno alzato le stime sulla crescita americana del quarto trimestre e da questo hanno tratto la conclusione che non ci saranno altri tagli, né in ottobre né in dicembre. A noi sembra però che in questo momento la Fed non possa permettersi di guardare solo al quadro macro immediato ma debba assicurarsi di potere sventare qualsiasi forma di credit crunch. E questo richiede probabilmente un altro taglio, o in ottobre o in dicembre.
Una volta portato a casa il rialzo di fine anno i mercati non potranno continuare a vivere tranquilli molto a lungo. Nel quadro di un bull market di fondo (per azioni e commodities) ancora per il 2008 si inseriranno infatti fasi di alta volatilità. Sarà volatilità indotta (quella che le banche centrali provocano a freddo quando vedono eccessi di posizioni e riduzione eccessiva del premio al rischio), ma sarà anche e soprattutto volatilità spontanea. Questa sarà provocata volta a volta da paure d’inflazione (la benzina americana ha ripreso a salire e continuerà a farlo), dal riemergere di problemi legati ai mutui e all’immobiliare, da possibili forti scrollate (anche se non ancora inversioni di tendenza) sulle borse emergenti, da possibili (anche se solo temporanee) fasi di rallentamento pronunciato della crescita negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone.
L’Outlook semestrale del Fondo Monetario è significativo. Ancora nel 2005 il primo capitolo (quadro macro e previsioni) era tutto compattamente positivo e solo qualche riga veniva dedicata ai rischi, che venivano elencati svogliatamente e per puro dovere d’ufficio. Oggi lo scenario di base è ancora molto positivo (il 4.8 di crescita globale 2008 è eccellente), ma decine e decine di pagine quasi angosciate sono dedicate ai rischi, definiti “decisamente al ribasso”.
Per chi investe, trovarsi per il 2008 uno scenario di base molto buono e nello stesso tempo forti rischi tutti al ribasso significa doversi attrezzare per tempo per fronteggiare la volatilità. In pratica significa in primo luogo un uso sempre più ridotto della leva e in secondo luogo che nelle fasi di mercato positive una parte delle plusvalenze, realizzate o meno, andrà spesa per comprare protezione a lungo termine.
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