NEW YORK (WSI) – Meno di due settimane fa il Primo Ministro turco Erdogan dichiarava di prevedere una rapida caduta del regime di Assad in Siria, ad opera dei “ribelli”. La dichiarazione era in linea con l’atteggiamento ostile verso Assad tenuto dal governo turco in tutta la crisi siriana; ma lanciarsi in auspici così plateali rappresentava sicuramente una chiusura a qualsiasi possibilità di interlocuzione con un avversario presentato come politicamente già morto.
Il fatto che in questi giorni sia invece proprio Erdogan a vedere messa in questione la propria legittimità politica dalle manifestazioni di piazza, rappresenta qualcosa di più di un’ironia del destino, ma potrebbe configurarsi come una logica conseguenza della politica anti-Assad. Ogni teatro di guerra tende ad esportare la propria instabilità ai Paesi vicini, e ciò non avviene per un semplice “contagio”, ma per il fatto che spesso la posizione di “alleato” si dimostra più insidiosa di quella di nemico.
Riguardo alle motivazioni delle manifestazioni, appare strano questo concentrarsi della rivolta contro la presunta svolta “autoritaria, integralista e populista” di Erdogan, mentre soltanto da parte di gruppi dell’estrema sinistra si accenna al fatto più macroscopico che la Turchia stia partecipando all’aggressione contro un Paese vicino e tradizionalmente amico. Mancano inoltre i riferimenti a tutti i pericoli che comporta l’interventismo in Siria. Togliere il divieto del velo islamico è certamente meno allarmante del fatto che Erdogan abbia deciso di asservire il proprio territorio alle esigenze dell’aggressione della NATO contro la Siria, lasciandolo trasformare in una base per le milizie mercenarie del Qatar e dell’Arabia Saudita, ed esponendolo così a tutte le possibili fregature connesse alla posizione di alleato troppo servile e servizievole.
Infatti una delle conseguenze più gravi della posizione di alleato subordinato riguarda la perdita del controllo del proprio territorio a causa della crescente invadenza dei cosiddetti “alleati”. Sarà una banalità ricordarlo, ma mettersi in posizione supina è sempre un invito all’aggressione. Il colonialismo è sempre più schematico che strategico, e spesso l’alleato può costituire una preda molto più facile e disponibile del nemico. Non è un caso che la cosiddetta guerra in Afghanistan sia diventata (sempre che non lo fosse sin dall’inizio) soprattutto una guerra degli USA contro un loro “alleato” tradizionale come il Pakistan.
Erdogan dovrebbe perciò cominciare a preoccuparsi del fatto che i media occidentali denotino un atteggiamento sin troppo “comprensivo” nei confronti dei tafferugli in Turchia, e si tratta degli stessi media che in Italia considerano il sampietrino di un manifestante come un caso di para-terrorismo. Altri commentatori ufficiali intanto già descrivono Erdogan come se fosse un Fratello Musulmano, mentre i rapporti di Amnesty International sono presi per oro colato, esattamente come per la Siria.
Analogamente, i capi di governo occidentali, a cominciare da Angela Merkel, hanno espresso posizioni “equidistantiste” che rappresentano una mortificazione diplomatica per un alleato fedelissimo come il regime turco. Insomma, sembra mancare poco che persino a Erdogan venga affibbiato quell’epiteto di “dittatore” che implica la morte civile a livello diplomatico.
L’occupazione del territorio turco inoltre non ha riguardato soltanto la presenza di basi di truppe mercenarie straniere, ma anche di servizi segreti, e persino di quelle nuove agenzie della provocazione e dei colpi di Stato che sono le Organizzazioni Non Governative. La Open Society Foundations del finanziere “filantropo” George Soros – che si dimostrò decisiva nella destabilizzazione di tutta l’Europa dell’Est e dell’Asia ex sovietica -, risulta ora presente in modo massiccio anche in Turchia.
A scorrere i programmi e i progetti della fondazione di Soros per la Turchia, impressiona il loro tono educazionistico e civilizzatore, come se la Turchia stessa andasse rapidamente convertita al vangelo occidentalista. Particolarmente pretestuosa appare la questione dell’estensione dei diritti della donna in un Paese che è stato tra i primi a riconoscere loro il diritto di voto; addirittura dal 1923. Il governo Erdogan inoltre non ha mai messo in questione i diritti acquisiti dalle donne nel periodo dei governi laici, né vi è traccia di islamizzazioni forzate; persino le norme che limitano la vendita degli alcolici sono più miti di quelle dei Paesi scandinavi. Non si capisce allora perché Soros non vada a salvare la Svizzera, che ha concesso il voto alle donne soltanto nel 1971, o la Svezia, che raziona gli alcolici.
Come è già avvenuto in Tunisia ed in Egitto, ed all’inizio anche in Siria, non c’è dubbio che la rivolta in Turchia convogli, o fagociti, anche istanze e rivendicazioni autentiche di un Paese che ha attraversato una notevole fase di sviluppo economico a costi sociali durissimi. Ma occorre tener presente che la tecnica della “rivoluzione colorata” elaborata dal team di Soros, non implica solo aspetti di mistificazione, ma anche di manipolazione. Anche l’adesione alla rivolta turca di un grande scrittore come Orhan Pamuk è sicuramente sincera; ma lo stesso Pamuk, sempre lucidissimo nello smascherare le magagne interne alla Turchia, si dimostra troppo spesso supinamente credulone nei confronti dei miti del Sacro Occidente.
La fondazione di Soros afferma anche di adoperarsi per l’entrata della Turchia nell’Unione Europea, cosa che sino a qualche anno fa avrebbe potuto costituire l’ammissione ad un club di eletti, mentre oggi suona come una minaccia di ingresso in un campo di concentramento.
La “deriva autoritaria” di Erdogan fa tenerezza se confrontata con l’attuale situazione europea, nella quale un organismo come il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), vanta uno statuto che – agli articoli 32, 33, 34, 35 e 36 – conferisce ad una ristretta oligarchia finanziaria dei privilegi inauditi ed un’assoluta immunità giudiziaria. Il tutto avviene nella completa disinformazione di una pubblica opinione convinta invece di sapere tutto grazie ai finti eroi del giornalismo d’assalto come i Santoro, le Gabanelli ed i Saviano. Tra l’altro il MES, mentre si arroga poteri assoluti sulle finanze e sui parlamenti dei Paesi europei, confessa nel suo stesso statuto – al punto 8 del preambolo – la propria totale dipendenza da un’istituzione come il Fondo Monetario Internazionale, controllata dagli Usa che ne costituiscono il socio di maggioranza.
Intanto, un’altra di quelle ONG no profit specializzate nella destabilizzazione internazionale, la Bertelsmann Foundation, comincia a discutere di obiettivi molto più ambiziosi, cioè l’inserimento della Turchia nel nuovo “ordine” transatlantico del commercio e della finanza, una forca caudina imposta dagli USA e contrassegnata dall’acronimo TTIP, che dovrebbe andare in vigore dal 2015, ma di cui l’opinione pubblica del libero Occidente non è stata ancora informata. L’integrazione nell’ordine transnazionale – cioè il dominio incontrastato delle multinazionali – prevede l’eliminazione di quei meccanismi di mediazione sociale che sono tipici dello Stato nazionale; e si tratta di innocue politiche di garantismo sociale, che però le organizzazioni transnazionali etichettano come “populismo“. Tutto ciò che possa minimamente ostacolare lo strapotere delle multinazionali viene perciò catalogato come minaccia autoritaria e degenerazione morale. Il fatto di essere “alleati” non salva nessuno da questa sorte, anzi, espone ancora di più all’aggressione coloniale. Se ne stanno accorgendo ora i Paesi del Sud Europa, ed anche la Turchia potrebbe rendersene conto di qui a poco.
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