L’ondata di arresti per corruzione in Arabia Saudita, che ha colpito 11 principi, 4 ministri, 38 ex ministri e numerosi uomini d’affari fra cui il “Warren Buffett d’Arabia” Alwaleed bin Talal, sarebbe motivata anche da ragioni puramente economiche. Secondo quanto scrive il Wall Street Journal, il Paese con questa mossa potrebbe arrivare a confiscare fino a 800 miliardi di dollari. L’Arabia Saudita sta sperimentando la progressiva erosione delle proprie riserve di valuta pregiata e mantiene una spesa pubblica fondata su consistenti entrate dovute al petrolio, la cui entità negli ultimi anni si è notevolmente ridimensionata.
Secondo il Wsj l’operazione “potrebbe aiutare a rimpinguare le casse di stato. Il governo ha affermato che le attività accumulate attraverso la corruzione diventeranno proprietà statale e le persone che hanno familiarità con la questione dicono che il governo stima il valore delle attività che può recuperare fino a 3 trilioni di riyal sauditi, ossia 800 miliardi di dollari”.
Anche se molti di questi asset sono investiti all’estero e sono più difficili da confiscare, si può comprendere il fondamento logico della campagna anticorruzione, se si considera che dal 2014 a pochi mesi fa le riserve valutarie del Paese sono passate da 730 miliardi a 487,6 miliardi. Molti meno rispetto alle risorse che i sauditi ritengono di poter confiscare a ex politici e uomini d’affari accusati di corruzione. Le investigazioni, comunque, sarebbero partite tre anni fa.