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(WSI) –
L’altro giorno, durante un esame universitario, una mia studentessa mi ha detto che la Rivoluzione Francese sarebbe avvenuta alla fine del ‘400. Non si trattava di un lapsus. La sua totale ignoranza della storia la autorizzava a sbagliarsi di trecento anni. L’ho promossa: paragonata agli altri, dimostrava una discreta conoscenza dello striminzito programma del mio insegnamento in teoria e tecniche del linguaggio televisivo. Sono un cattivo professore? Me lo chiedo in continuazione e non so rispondere.
Quel che so è che la mia indulgenza è conseguenza di un’abdicazione collettiva. Quel che so è che, se dovessi applicare i miei personali criteri di rigore alla valutazione degli studenti, ne dovrei bocciare nove su dieci. Quel che so è che quotidianamente laureiamo in lettere studenti che non hanno mai letto né Foscolo né Gadda, in scienze della comunicazione studenti che non sanno chi era Hitchcock e in tutte le discipline studenti che non sanno esprimersi in un italiano corretto, né per iscritto né oralmente.
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Quel che so è che, non soltanto i nostri diplomati, ma perfino i nostri laureati, in molti casi, sono semi-analfabeti di andata e ritorno. Oggi giunge la notizia secondo la quale agli ultimi esami di Stato sarebbe raddoppiato il numero delle bocciature. Il ministro della Pubblica Istruzione esprime soddisfazione per il fatto che la scuola avrebbe recepito e applicato le direttive di severità e rigore impartite dal ministero. È lecito unirsi alla soddisfazione? A questa domanda so rispondere: no, purtroppo no. Non è affatto opportuno. Dobbiamo, invece, tenerci ben saldi a quel diffusissimo senso d’insoddisfazione che ogni giorno centinaia di migliaia di docenti di ogni ordine e grado provano perché consci di non svolgere più il proprio ruolo di insegnanti e di educatori. È da lì che si dovrà ripartire.
Nell’ultima dozzina d’anni, durante i quali sono passato dalla condizione di studente a quella di docente, si è verificato uno scadimento verticale della quantità e qualità dell’istruzione impartita dalle nostre scuole. Dieci anni fa insegnavo al liceo, oggi insegno all’università ma è come se non mi fossi mai mosso dai banchi di scuola perché nel frattempo l’università è diventata un liceo. Di questo passo, è facile prevedere che nel giro di altri dieci anni sprofonderà al livello della scuola media inferiore.
L’intero sistema dell’istruzione, incapace di adeguarsi al rapido mutare delle forme della conoscenza, sta rinunciando anche a qualsiasi contenuto. Non si fa che arretrare. Si cede terreno, giorno dopo giorno, come se stessimo tutti eseguendo un ordine di marcia retrograda immediata. Di cui, però, ignoriamo la destinazione. Questa rotta porta con sé un corollario terribile: stiamo rinunciando a ogni pedagogia, al tratto magistrale del nostro insegnamento, e con esso stiamo abbandonando qualsiasi idea di paideia. Dopo millenni, stiamo smettendo di credere che l’adulto possa e debba educare il giovane, che il giovane gli sia sottoposto quanto ad autorità e inferiore quanto a conoscenza.
Di fronte a tutto ciò, la tentazione del demone reazionario è fortissima. Ma bisogna resisterle. È vero che un medesimo principio può essere reazionario in un’epoca e progressista in un’altra. L’odierna necessità di tornare alla severità e al rigore nell’insegnamento potrebbe essere uno di quei casi. Ma ciò non può significare «tornare al buon tempo antico», innanzitutto perché quel tempo non era così buono e poi perché, molto semplicemente, non abbiamo terra alle nostre spalle. Dobbiamo, invece, invertire l’ordine di marcia e marciare al passo con i tempi. Anzi, un passo avanti ad essi. Se davvero ci sta a cuore l’avvenire delle nostre scuole, dobbiamo creare delle scuole dell’avvenire. Dobbiamo inventarci una severità progressista.
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