TORINO (WSI) – Pubblichiamo una sintesi dell’intervento effettuato da Camillo Venesio, amministratore delegato e direttore generale di Banca del Piemonte e vice presidente dell’ABI, al Salone del Libro di Torino, il 10 maggio 2014, in occasione dell’incontro con Luca Ciarrocca autore di “I Padroni del Mondo” – Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni (Chiarelettere, 2013) e Federico Rampini autore di “Banchieri, Storie del nuovo banditismo globale” (Mondadori, 2013).
Nell’Intervento si fa anche riferimento a: Jean Paul Fitoussi, “Il teorema del Lampione” (Einaudi, 2013); Luciano Gallino, “Il colpo di stato di banche e governi (Einaudi, 2013). Le foto sono tratte dal sito del Salone del Libro.
Ho letto questi libri con la sincera volontà di capire, di comprendere punti di vista talvolta anche molto diversi da quelli che molti di noi sono soliti ascoltare. Sono scritti bene, scorrono, con spiegazioni piuttosto chiare di argomenti talvolta molto complessi. Prima di tutto vorrei soffermarmi su un fatto per me determinante: i libri di Ciarrocca e di Rampini criticano pesantemente le “banche” e i modelli strategici e operativi applicati negli ultimi decenni: ma quali banche criticano? Quali modelli strategici e operativi criticano? Su questo tornerò fra un momento.
Tanto per dare un’idea dell’approccio dei due autori vi leggo poche frasi per ciascuno dei due libri: Ciarrocca, a pagina 5: “I padroni del mondo (…) che qui chiamiamo bankster, neologismo (…) nato dalla fusione tra banker e gangster”, a pagina 39, citando Honoré de Balzac: “Non è scandaloso che alcuni banchieri siano finiti in prigione: scandaloso è che tutti gli altri siano in libertà”, a pagina 144: “… l’intero sistema capitalistico può essere considerato una truffa legalizzata ai danni delle popolazioni di ogni singolo Stato”; Rampini, a pagina 10: “I grandi banditi dei nostri tempi sono i banchieri”, a pagina 101: “I banchieri hanno inquinato tutta l’economia”…
Dicevo: ma di quali banche si parla? Di quali banchieri si parla? Infatti banche e banchieri sono termini usati sovente in modo troppo generalizzato; con banche in questi due libri s’intendono in larga prevalenza le enormi investment banks anglosassoni o i grandi agglomerati bancari e finanziari globali (JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of America, Citigroup, HSBC, per fare qualche esempio), o, ancora, il sistema bancario ombra (shadow banking system: fondi del mercato monetario, hedge fund, società di mutui, istituti di cartolarizzazione…); si tratta quindi di entità prevalentemente nordamericane e inglesi con qualcun’altra in nord Europa e in Oriente; esse hanno sicuramente contribuito a scatenare con i loro comportamenti la terribile e lunga crisi, prima finanziaria e poi economica, che ci ha pesantemente colpito tutti; e ora hanno anche ricominciato.
[ARTICLEIMAGE] Sono banche che fanno mestieri in prevalenza o del tutto diversi da quelli delle banche commerciali in Italia: si tratta proprio di due mondi completamente diversi tra loro, anche con poteri di influenza sull’economia che sono su scale incommensurabilmente diverse, altro che “padroni del mondo”!
E non mi sembra corretto accomunarle nei giudizi. In Italia ci sono centinaia di banche, grandi e piccole, che fanno onestamente il proprio mestiere a sostegno delle economie dei territori, finanziando l’economia reale e quindi le famiglie, gli artigiani, i commercianti, gli agricoltori, i professionisti, le grandi, piccole e medie imprese; inoltre queste banche (mi verrebbe da dire “normali”) amministrano e gestiscono i risparmi e fanno numerosi altri servizi.
Certamente, come tutti gli operatori economici, possono sbagliare e in alcuni casi hanno sbagliato, ma hanno dimostrato e dimostrano competenza, serietà, impegno, difficoltà e sofferenza in questi lunghi anni di crisi… e oltre al danno di questa confusione ho anche la beffa, come molti altri colleghi italiani, vedendo che lo stipendio annuale di uno qualsiasi dei massimi dirigenti di questi grandi agglomerati globali è un multiplo dell’utile complessivo della mia banca!
Ma andiamo nel dettaglio di questi due libri.
Ciarrocca, 237 pagine; pagine dove si scrive di banche italiane: 10.
In tre di queste dieci pagine si accenna a “una banca collusa con il potere politico che, speculando sui derivati, ha perso in due anni 7,1 miliardi di €” una banca dove i “numeri sono truccati” (pagine 15 e 104) con valutazioni a mio avviso non del tutto condivisibili: è vero, in quella banca la collusione col potere politico (partiti locali, massoneria e sindacato) ha fatto sì che la selezione delle persone sia stata fatta sulla base di appartenenze e non di competenze, problema gravissimo ma non certo nuovo; ricordo al proposito un famoso scritto di Luigi Einaudi (“Banche con aggettivi”, Il Corriere della Sera 23/8/1924), nel quale trattando della “difficile arte del banchiere ” parla di “banca fascista”, “banca cattolica”, “banca socialista” scrivendo: “l’arte bancaria è un’arte difficilissima; e l’aggiunta d’un aggettivo qualunque al titolo è atto, forse, soltanto a crescere difficoltà già per se stesse eccezionali”.
[ARTICLEIMAGE] Ma quella banca ha usato i derivati per spalmare in più anni grosse perdite derivanti da investimenti sbagliati nel tempo (per esempio in una grossa banca italiana); gravissimi sbagli gestionali probabilmente dovuti a un management non all’altezza e non indipendente perché selezionato come si è detto; soprattutto, la banca non c’entra niente con le cause della crisi finanziaria mondiale.
In altre quattro pagine si evidenzia lo “scenario cupo” delle banche italiane perché molte sono a corto di capitale per le perdite su crediti e le nuove regole europee: vero, anche se non generalizzabile, ma è evidente che qui si parla di banche in sofferenza per la crisi e non di bankster responsabili di averla scatenata. In una pagina si critica il Fondo di Tutela dei Depositi italiano che è un consorzio tra le banche per rimborsare una parte dei depositi dei clienti di banche che sono quasi in fallimento; si scrive che il fondo è “finto”, orbene, visto che oggi tutte le banche italiane stanno pagando, attraverso il Fondo, circa 280 milioni di € di soldi veri per salvare i depositanti di due casse di risparmio in difficoltà nel centro sud, definire “finto” il Fondo mi sembra quantomeno ingeneroso.
Infine, in due pagine si critica la restrizione creditizia (credit crunch) di questi ultimi tempi da parte delle banche italiane, argomento complesso e sofferto che meriterebbe maggior approfondimento soprattutto in un libro dove una delle linee guida è che la grande crisi finanziaria è stata innescata anche dall’ eccesso di credito.
Rampini, 166 pagine; pagine dove si scrive di banche italiane: 5.
[ARTICLEIMAGE] Le prime due trattano del “salvataggio” di un grande imprenditore e di una grande impresa, da parte di due grandi banche, a fronte del credit crunch nei confronti di altri piccoli operatori; ora, qui è necessaria una risposta chiara: cinque anni di crisi, insieme a nuove restrittive normative europee sulla gestione del rischio di credito hanno portato le banche italiane, che malgrado tutto continuano a prestare in Italia nel complesso 135 miliardi di € in più di quanto raccolgono, a questo risultato: più di 1.200.000 posizioni in sofferenza (sono i crediti che saranno rimborsati solo in piccola parte) di cui oltre 1 milione sotto i 125.000 €; il 25% delle imprese (una su quattro!) è ricompresa nella categoria “partite deteriorate”; è inutile è fuorviante che si faccia populismo e demagogia su un numero limitato di nomi risonanti, la crisi è stata vasta, pervasiva e ha intaccato tutti i livelli dell’economia e della società, le banche che qui in Italia hanno sempre fatto e continuano a fare il loro mestiere di intermediazione creditizia con raccolta dei depositi e sostegno creditizio alle famiglie e alle imprese hanno pagato e continuano a pagare un prezzo elevatissimo in termini di perdite; come detto, hanno fatto degli errori, ma hanno sostenuto e continuano a sostenere il tessuto produttivo, commerciale e sociale della seconda nazione industriale europea.
Al fondo di un’altra pagina ci sono quattro righe che trattano di un Amministratore Delegato di una banca indagato (nota bene, non condannato) per ostacolo all’autorità di vigilanza per poi passare subito dopo al grave scandalo europeo della definizione del tasso Libor (il più importante dei tassi di interesse interbancari da cui dipendono tanti altri tassi di interesse che toccano la nostra vita quotidiana): ebbene da questo scandalo non una sola banca italiana è stata sfiorata, fatto neanche accennato dall’autore.
Infine, in altre due pagine si accenna che gli interessi pagati dalle imprese italiane sono più alti d i quelli pagati dalle imprese tedesche senza specificare che tutta la struttura dei tassi di interesse in Italia è più elevata di quella in Germania (è la questione dell’ormai noto spread, cioè il differenziale fra l’interesse sui titoli di stato tedeschi e quelli italiani, ora in netta riduzione ma comunque ancora su valori significativi) e che anche la situazione del rischio di credito tra Italia e Germania è diversa.
[ARTICLEIMAGE] Ora, un paio di domande agli autori: nei due libri ci sono molte affermazioni assolutamente condivisibili sulle enormi investment banks anglosassoni, sui grandi agglomerati bancari e finanziari globali, sul sistema bancario ombra e sulle loro gravi responsabilità, ma perché non è evidenziato che le banche italiane non hanno alcuna responsabilità nello scatenarsi della terribile crisi finanziaria del 2007/2008 e della successiva lunga e pesante recessione economica? Da tutto quanto scrivete emerge chiaramente, perché non è detto esplicitamente?
Ancora, perché non c’è un minimo accenno al fatto che il modello di business delle banche italiane – “make banking boring” scrive Luciano Gallino nel suo recente libro “Il colpo di stato di banche e governi” – di fare banca commerciale in modo “classico” e quindi anche “noioso”, ha fatto sì che le banche italiane fossero anche vittime di questa lunga crisi, tirandosene fuori da sole, senza che lo Stato abbia sborsato un solo euro a fondo perduto per salvarle?
Accettando che si faccia “di ogni erba un fascio” si indeboliscono le banche italiane e il loro modello di business che è profondamente diverso da quello delle grandi investment sbanks anglosassoni e dei grandi agglomerati bancari e finanziari globali, per non parlare del sistema bancario ombra; se il grande Fondo di investimento americano BlackRock acquista partecipazioni nelle principali banche italiane, lo fa per ottenere dei guadagni importanti in tempi per quanto possibili brevi, e per ottenere questi risultati è ragionevole che cercherà anche d’influire sui modelli di business delle banche italiane in cui ha investito, che come noto oggi producono poco o nessun utile, per portarle verso il modello anglosassone e, sicuramente, quando riceve i dividendi non li distribuisce sui territori, nella Ricerca Medica, nella Sanità, nella Cultura come invece fanno le Fondazioni Bancarie, tra i pochi investitori di lungo periodo italiani, in alcuni casi azioniste ancora importanti di alcune banche italiane. Perché non sono sottolineate queste differenze?
Talvolta, a sentir parlare di banche in questo modo, ad alcuni di noi vengono in mente i libri di Daniel Pennac, chi li ha letti si ricorderà del personaggio principale Benjamin Malaussène, sostanzialmente il capro espiatorio, il quale ha si curamente una importante funzione sociale facendo scaricare le tensioni: siamo insultati, riceviamo metaforicamente i pomodori in faccia e forse dopo chi ci ha insultato va a casa più contento; possiamo andarcene tutti, ma i problemi rimangono; di questi enormi problemi europei e italiani vogliamo invece discuterne insieme, cercando di risolverli, partendo da questioni oggettive e non da generalizzazioni e miti mai verificati?
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Ciarrocca nella quarta parte del suo libro, intitolata “Ecco ora che fare” riprende una proposta di riforma monetaria – Positive Money che inizialmente era contenuta in un documento degli anni ’30 del secolo scorso, preparato da importanti economisti statunitensi durante la Grande Crisi di quei tempi, tra i quali Irving Fischer che ne descrisse analiticamente i vantaggi.
E’ conosciuto tra gli addetti ai lavori come Chicago Plan; nel 2012 un Paper di due economisti del Fondo Monetario Internazionale afferma che il Piano potrebbe sostanzialmente funzionare; ancora, due studiosi inglesi con il loro libro Modernising Money riprendono con forza le idee contenute nel Chicago Plan con la proposta di riformare pesantemente il sistema monetario “ormai degenerato” scrive Ciarrocca; molto recentemente Martin Wolf, chief economist commentator del Financial Times ne parla positivamente in un articolo dal titolo “Togliere alle banche private il loro potere di creare moneta”.
Premessa importante: tutti gli autori quando scrivono hanno in mente il settore bancario anglosassone, dove l’economia reale (famiglie e imprese) è molto meno dipendente dal credito bancario rispetto alle realtà dell’Europa continentale e meridionale: le banche qui in Europa continentale fanno credito prevalentemente all’economia reale, là, in USA e Regno Unito, no.
In estrema sintesi la riforma può essere così delineata: primo, lo Stato, non le banche, avrebbe il potere di creare la cosiddetta moneta bancaria (“quando le banche concedono prestiti ai loro clienti, creano denaro dal nulla, accreditando la somma sui loro conti bancari”); i clienti terrebbero i propri depositi a vista in conti volti esclusivamente a custodire il denaro e a effettuare transazioni e pagherebbero alla banca commissioni per i servizi; le banche non potrebbero prestare questi soldi perché tutti sarebbero versati nelle Banche Centrali e quindi totalmente garantiti ai depositanti.
Secondo: le banche offrirebbero ai propri clienti anche conti di investimento a scadenza remunerati da interessi, conti che servirebbero per fare prestiti, ma i prestiti dovrebbero essere approvati dai clienti titolari dei depositi, i quali, per la durata dei prestiti, non disporrebbero dei loro risparmi; i titolari dei conti che hanno deciso di fare prestiti sarebbero, in parte, anche colpiti dalle eventuali perdite; i Regolatori potrebbero imporre Regole Prudenziali e patrimoniali a fronte dei conti di investimento.
Terzo: la moneta verrebbe creata solo dalle banche Centrali secondo necessità, per promuovere una crescita non inflazionistica; un Comitato indipendente (Money Creation Committee) deciderebbe quando e quanta moneta creare.
Quarto: la nuova moneta verrebbe immessa nell’economia in diversi modi, come l’aumento della spesa pubblica, il rimborso di debiti esistenti, la riduzione delle imposte.
Vi sarebbero moltissime considerazioni riguardo l’applicazione di questa riforma (forse sarebbe meglio definirla rivoluzione), in particolare per quanto concerne la sua applicabilità nell’economia dell’Europa continentale e in Italia, analisi di applicabilità che non mi pare sia stata fatta da nessuno degli autori i quali, come ricordavo, hanno lavorato avendo in mente i sistemi bancari anglosassoni; mi limito a tre osservazioni sottolineando che non sono un economista ma penso di conoscere bene l’economia reale.
Primo: la probabilità di un’enorme restrizione creditizia (Credit Crunch) sarebbe elevatissima; se sono i depositanti a tempo che decidono se e a chi imprestare i propri soldi correndo in parte il rischio di perderli, visto che già in situazioni normali probabilmente i depositanti non troverebbero adeguatamente remunerativi i prestiti (in particolare alle controparti migliori), in momenti difficili (stagnazione o recessione) è molto probabile che nessuno voglia prestare i propri depositi se non a fronte di interessi altissimi; lo Stato non potrebbe sostituirsi del tutto perché ci sarebbero alti rischi di forte inflazione.
Secondo, ed è la questione che a me preoccupa di più: nella creazione della moneta (bancaria) si sostituirebbero, in larga parte, milioni di decisioni singole (il funzionario di ogni banca che decide il prestito sulla base della validità del progetto o della richiesta presentati) con un numero estremamente limitato di decisioni prese da un unico organismo centrale, il Money Creation Committee secondo alcuni autori, indipendente fin che si vuole ma che rischia di diventare una entità tipo Il Grande Fratello di George Orwell.
Il mercato aperto con libera competizione ha prodotto danni importanti ma anche crescita e sviluppo come mai si era visto nella storia della razza umana; in questa proposta il mercato verrebbe in larga parte cancellato nella fondamentale azione di creazione di moneta (bancaria).
Terzo: se il canale prevalente di creazione di moneta è lo Stato (spesa pubblica, rimborso di debiti…) la velocità con cui il denaro che entra nel l’economia raggiunge chi ne ha bisogno (famiglie e imprese) per le proprie spese e i propri investimenti è sicuramente molto rallentata: e nel mentre dove vanno a prendere i soldi le famiglie e le imprese? Ritengo di essere una persona pragmatica e pur cercando di comprendere con mente aperta le proposte che a una prima analisi sembrano quantomeno strane, quando, dopo averle analizzate, non mi convincono lo dico chiaramente.
È questo il caso. Il Chicago Plan non appare un modello che possa ragionevolmente rifondare oggi o in un futuro prevedibile il capitalismo anglosassone, oltretutto a costo di ingessare pesantemente le economie dell’Europa continentale e meridionale.
Sarebbe più fattibile e molto meno complicato, anche se allo stato si sta rivelando comunque molto difficile, applicare alle enormi investment banks anglosassoni, ai grandi agglomerati bancari e finanziari globali e, soprattutto, al sistema bancario ombra un po’ delle regole che vengono applicate in tutto il mondo alle banche “normali”.
Mi riferisco all’enorme impianto di norme che in Europa sono comprese negli ambiziosi e a mio avviso giusti progetti di Unione Bancaria: prima con il Single Supervisory Mechanism con il quale finalmente si dovrebbero avere regole e prassi di vigilanza uniformi per le banche in tutta Europa, poi con il Meccanismo Unico di risoluzione delle crisi bancarie e con i Sistemi di Garanzia dei depositi.
In conclusione vorrei proporre qualche ragionamento in ordine alle altre cause che hanno contribuito a produrre questa grave crisi e a possibili modifiche di comportamenti necessari per risolverla.
In un altro bel libro (Il teorema del Lampione, Einaudi, 2013) l’economista francese Jean Paul Fitoussi sostiene che sarebbe importante ricostruire una normale gerarchia tra politica e tecnocrazia (che il sociologo Gallino definisce anche “contabili ignoti e irresponsabili”) e osserva che le tre istituzioni che indirizzano la politica macroeconomica dell’Unione europea sono: la Banca centrale europea, il Patto di stabilità e di crescita e la Direzione della concorrenza della Commissione europea; la prima con le caratteristich e di una “direzione della moneta” (una specie di ministro dell’attività economica), la seconda di un segretario di stato alla supervisione del bilancio e la terza di un ministro della concorrenza, ciascuno dotato di poteri sovranazionali; in questo modo, secondo Fitoussi, le “modalità di governo economico dell’Unione sono più simili a una gestione facente capo ad autorità indipendenti” che a un processo di decisione politico e che quindi il fatto che “l’orientamento delle politiche economiche dell’Unione sia per lo più indipendente da ogni processo democratico è al tempo stesso contrario alle tradizioni politiche dei popoli europei e pericoloso per l’efficienza economica dell’insieme”.
Sono d’accordo. In questa Unione europea, “figlia dell’economia e orfana della politica”, che i politici (e uso questa definizione in senso “alto”, perché sono convinto che ci siano ancora molti politici seri, preparati, non populisti e demagoghi ma con la tensione morale di fare il bene comune) si riapproprino in Europa del loro ruolo di leader e usino il buon senso, non avallino decisioni prese per loro dalle tecnocrazie, usino il buon senso che anche nell’era delle grandi tecnologie, delle straordinarie invenzioni, delle meravigliose teorie economiche che hanno vinto i premi Nobel, continua a essere d’importanza fondamentale.
L’ho provato personalmente: negli anni “ruggenti” per l’economia finanziaria (dalla metà degli anni ’90 al 2007) anche le più prudenti Autorità di vigilanza bancaria europee erano attente al grande sviluppo del mercato finanziario anglosassone e alla crescita economica che essa produceva (tra le diverse Autorità di vigilanza per altro Banca d’Italia si è sempre distinta per il massimo rigore); per aumentare la redditività vi era possibilità di acquistare e vendere i prodotti che venivano da oltreoceano, chiamiamoli derivati complessi; anch’io quindi ho avuto a che fare con loro: li ho guardati dentro, certamente, avevo le conoscenze per farlo ma soprattutto ho usato il buon senso, non mi convincevano sebbene le convenzioni matematiche fossero razionali, ma se un premio Nobel mi dice che le mucche possono volare io non ci credo, e in questo modo ho evitato a noi e ai nostri clienti tanti problemi.
I politici europei dovrebbero fare la stessa cosa. Riappropriarsi del loro ruolo di leadership anche economica, mettendo inoltre in discussione gli indicatori che vengono di solito utilizzati e troppo sovente acriticamente accettati. Come osserva acutamente Fitoussi “gli apparati di conoscenza statistica – le nomenclature che producono, le categorie che utilizzano, i concetti che organizzano – sono stati concepiti e messi in pratica negli anni Cinquanta. Certamente si sono evoluti molto da allora, in virtù dei progressi della tecnica e dell’avanzare della ricerca; ma nel mondo i cambiamenti sono stati ancora più rapidi e la filosofia che ha presieduto alla loro elaborazione affonda profondamente le sue radici negli anni del dopoguerra”.
Solo due esempi: il Prodotto Interno Lordo e il suo andamento, ma siamo proprio convinti che sia l’unico e fondamentale indicatore per valutare la misura di ogni cosa in una nazione, anche il benessere e la qualità della vita? Molti anni fa preparai una tesi di laurea in Economia che mi valse la lode, s’intitolava: “Verifica del livello di sviluppo economico attraverso gli indicatori sociali” e lì scrivevo: “Il problema che vorrei qui cercare di evidenziare e a cui, in fondo, è dedicata questa relazione è infatti quello di determinare se un indicatore monetario come il reddito pro-capite sia sufficiente a individuare il grado di ricchezza e di sviluppo di una nazione, o se siano utili, o, addirittura, necessarie ulteriori notizie che possono essere per esempio fornite, come nel nostro caso, dagli indicatori sociali.”
Anche di questo dovrebbero occuparsi i politici europei. Ancora, la questione del Debito Pubblico e soprattutto del pareggio di bilancio da inserire in Costituzione; qui per l’Italia è necessario fare la massima attenzione perché politiche dissennate e difficilmente giustificabili di lunghi decenni hanno prodotto un Debito Pubblico tra i più elevati del mondo (peraltro, in proporzione al Prodotto Interno Lordo, poco più della metà di quello del Giappone) che rappresenta uno dei nostri grandi punti di debolezza; sicuramente condivido in larga parte la linea di politica economica di questi ultimi anni, diversa da quelle dissipatrici che il nostro paese ha percorso per decenni ma, allo stesso tempo, il dover raggiungere il pareggio di bilancio in pochi anni, in presenza della più grave crisi che il nostro paese e l’Europa abbiano mai attraversato a parte i periodi di guerra, non mi sembra cosa del tutto sensata: vuol dire, come ce ne stiamo accorgendo tutti, più imposte e tasse, me no servizi, altissima disoccupazione soprattutto giovanile, meno consumi, meno investimenti…
Sono stato profondamente colpito dal leggere la lettera aperta che otto grandissimi economisti americani (cinque dei quali vincitori di premi Nobel) hanno scritto nel luglio del 2011 al Presidente e alle più alte cariche politiche di maggioranza e opposizione negli Stati Uniti contro l’inserimento della regola costituzionale di pareggio di bilancio pubblico: è un documento breve e di straordinaria chiarezza, senza l’enunciazione di teorie economiche ma con considerazioni di grande buon senso e facilmente comprensibili a tutti. Sono stati ascoltati: la costituzione degli Stati Uniti non ha una norma che prevede il pareggio di bilancio. Anche di questo dovrebbero occuparsi i politici europei.