Tra il 2009 e il 2022, il settore bancario italiano ha perso oltre 66 mila posti di lavoro (66,380 mila per la precisione). I dati, elaborati dalla Fondazione Fiba di First Cisl, mostrano una fotografia impietosa sullo stato dell’occupazione del comparto del credito nel nostro Paese. Il quadro è tanto più preoccupante se si considera che questi sono numeri al netto delle nuove assunzioni (circa 38 mila assunzioni): il ricambio generazionale, incentivato dal 2011 tramite il Fondo per l’occupazione, non è stato dunque a saldo zero, ma ampiamente negativo.
Come se non bastasse, la situazione sembra destinata a peggiorare ulteriormente, per effetto della desertificazione bancaria, fenomeno che va avanti da anni, e che rischia di provocare una nuova emorragia di posti. Secondo le stime del sindacato, le chiusure 2023, poco più di 800, rischiano di essere replicate anche quest’anno.
Emorragia di posti, le cause principali
Diverse le ragioni che hanno determinato un calo occupazionale così vistoso, come quello emerso dai numeri appena visti. A partire dalle ristrutturazioni societarie successive alle operazioni di fusione e acquisizione. Un altro colpo è stato poi assestato dall’era dei tassi a zero, che ha inciso pesantemente sui bilanci: per diversi anni, gli istituti bancari, per sostenere la redditività, hanno potuto contare quasi esclusivamente sulle commissioni. Una situazione che ha costretto i player del settore ad adottare una politica di tagli dei costi, che ha finito inevitabilmente per coinvolgere anche il personale.
Vale la pena ricordare che, in Italia, gli esuberi del settore bancario vengono gestiti tramite Fondo di solidarietà per esuberi dei lavoratori dipendenti del credito. Questo fondo, costituito presso l’Inps e finanziato con i contributi delle aziende di credito e dei lavoratori del settore, viene utilizzato in caso di ristrutturazioni, fusioni bancarie in cui siano presenti esuberi di personale, per accompagnare i lavoratori fino alla pensione.
In trent’anni perse oltre 600 banche
Un quadro sullo stato occupazionale del settore bancario italiano non può prescindere dal forte calo dei gruppi, a cui si è assistito nel corso degli ultimi 30 anni, periodo in cui sono “sparite” circa 600 banche (soprattutto quelle a matrice cooperativa): dalle 1.037 del 1993, oggi se ne contano 434. Per numero di istituti, l’Italia resta davanti alla Francia (394), ma dietro a Polonia (573) ed Austria (443). Lontanissima la Germania, che può ancora contare su 1.381 banche.
“La cura dimagrante del nostro sistema bancario – sottolineano da First Cisl – prende avvio negli anni ’90 e prosegue attraverso la crisi finanziaria del 2008, la riforma delle banche popolari e quella del credito cooperativo. Questo processo ha innescato quello, parallelo, della desertificazione bancaria dei territori”.
La riduzione del numero delle banche ha portato ad una concentrazione del sistema sempre più forte. La quota dei primi cinque gruppi italiani sul totale degli attivi è cresciuta di 24,9 punti dal 1999 al 2022, arrivando oggi a controllare oltre il 50% del mercato domestico, contro il 46,4% della Francia ed il 35% della Germania.
Boom di utili, anche grazie all’aumento della produttività
Se nell’era dei tassi zero i conti degli istituti di credito hanno sofferto, ora il vento soffia a favore. Due anni di tassi di interesse in rialzo fino al 4,5% hanno dato una spinta agli utili senza senza precedenti.
Analizzando i conti delle prime cinque banche italiane, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Banco Bpm, Bper, gli analisti della Fondazione Fiba di First Cisl, spiegano che il forte aumento della redditività, con il Roe arrivato al 13,2%, è frutto dell’impennata dei tassi, che ha sospinto il margine di interesse del 45%. Ma non solo. I risultati record del 2023 si spiegano anche con l’aumento del margine primario per dipendente (+ 27%) e con l’incremento del risultato lordo di gestione per dipendente (+ 41,4%), mentre il costo del personale sui proventi operativi è sceso al 27,3% (dal 31,8%). Nel frattempo, è proseguita anche la discesa del cost/income, che è ridotto di oltre 7 punti percentuali al 44,1%, dato sensibilmente inferiore ai maggiori gruppi europei (cost/income medio al 54,2%).
Cosa succede all’estero
Va ricordato che la perdita di posti di lavoro che sta sperimentando il settore del credito non è un fenomeno esclusivamente italiano. Stando ad una recente un’analisi del Financial Times, nel 2023 le 20 maggiori banche al mondo (tra queste nessuna è italiana) hanno tagliato oltre 60 mila posti di lavoro, un dato fra i più elevati dai tempi della crisi finanziaria del 2007-8 (quando però la riduzione degli organici raggiunse le 140 mila unità). Dai numeri si evince che almeno metà dei tagli sono stati effettuati dagli istituti di credito di Wall Street, le cui attività di investment banking hanno faticato a far fronte alla velocità degli aumenti dei tassi di interesse. Ma non solo.
Guardando al Vecchio Continente, il quotidiano inglese ricorda che l‘acquisizione del Credit Suisse da parte di UBS ha già comportato almeno 13.000 posti di lavoro in meno e si prevedono altre grandi ondate di licenziamenti per l’anno prossimo.Dopo Ubs, i tagli più consistenti si sono verificati a Wells Fargo, che questo mese ha rivelato di aver ridotto il suo organico globale di 12.000 unità, portandolo a 230.000. Citigroup ha tagliato 5.000 posti di lavoro, Morgan Stanley ne ha eliminati 4.800, Bank of America 4.000, Goldman Sachs 3.200 e JPMorgan Chase 1.000.