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(WSI) – Sull’Iraq sta accadendo
qualcosa di strano. O meglio
è strano per chi, a destra
come a sinistra, ha continuato
ad alimentare un dibattito
da tarda scolastica su ritiro sì
ritiro no. Senza accorgersi che le
cose stavano rapidamente cambiando.
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Per la verità, non si può
far carico a Silvio Berlusconi di
non aver voluto vedere.Al contrario,
ha visto persino troppo in
fretta, con qualche dichiarazione
intempestiva che ha provocato
frizioni con gli alleati. Ha cominciato
in estate ad annunciare
che «fin da settembre» sarebbe
cominciato un parziale ritiro.
Poi ha insistito alla vigilia dell’incontro
con Bush ricordando
come avesse sconsigliato l’invasione
dell’Iraq (e il presidente
americano sembra che non abbia
gradito non solo la sostanza,
ma il timing). Infine, da Tunisi,
dopo un incontro con il presidente
Ben Alì, ha rilanciato,
questa volta spiazzando il ministro
Martino intento a discutere
con Rumsfeld.
Il paradosso è che Berlusconi
ha detto (anche se non lo ammetterà
mai) le stesse cose di
Romano Prodi. Anche lui pragmatico,
il capo dell’Unione ha
parlato di una uscita graduale
dall’Iraq concordata con gli alleati.
«Resteremo con una presenza
civile per addestrare le
forze di sicurezza e aiutare la ricostruzione
». Ipotesi ripresa e
ripetuta da Berlusconi. E mentre
il capo del governo italiano
parlava a Tunisi, dal Pentagono
usciva la notizia che tre brigate
americane sarebbero rientrate
nei primi mesi del prossimo anno.
Primo passo di una exit strategy
che ormai comincia ad avere
una scaletta definita.
Dietro la fretta di Berlusconi
c’è senza dubbio una
considerazione elettorale. È
evidente che voglia togliersi la
«k», cioè l’immagine non tanto
di fedele alleato e amico di Bush
(alla quale tiene ancora),ma
di «ascaro» che, a torto a ragione
gli è stata appiccicata. Lo
spostamento della base Usa alla
Maddalena non è stato discusso
tra Martino e Rumsfeld
per fare un favore a Soru. Ma,
anch’esso, per staccare di dosso
al governo una etichetta destinata
a nuocergli. Senza dimenticare
il rischio, sempre presente,
che l’avvicinarsi del voto
possa aumentare il pericolo di
attentati terroristici. Lo spettro
di Madrid turba i sonni di
ognuno di noi. Tanto più che
anche a Londra i gruppi alqaedisti
avevano pensato di colpire
prima delle elezioni.
Anche a Washington la politica
interna sta prendendo il sopravvento.
Il ritiro è all’ordine
del giorno. Il problema è se deve
essere quick o gradual. L’orizzonte
comunque è chiaro: le
elezioni di midterm nel prossimo
novembre. Sono in gioco gli
equilibri nel Congresso. Ma persino
in Iraq le urne fanno da acceleratore.
Le elezioni del prossimo
mese, se i sunniti scelgono
di entrare senza riserve nel processo
politico, potranno essere
l’ultimo tassello della svolta.
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