La lotta della Cina al trading e al mining di Bitcoin e criptovalute, resi illegali in seguito a una decisione della banca centrale comunicata la scorsa settimana, si collega anche alla sfida climatica e ai consumi di energia.
Per le autorità cinesi, infatti, le attività di mining necessarie a garantire il funzionamento della blockchain hanno un impatto ambientale incompatibile con i progetti di carbon neutrality del Paese. Già dallo scorso giugno era stato messo in evidenza come gran parte delle attuali attività di estrazione di Bitcoin non avrebbero più avuto nella Cina la propria patria d’elezione. Il funzionamento della Blockchain e, di conseguenza, il mining del Bitcoin sono attività che consumano ingenti quantità di energia elettrica. Per questo conviene installare le macchine di calcolo necessarie dove l’energia costa di meno e i margini di guadagno (dovuti alla creazione di nuove monete) è massima.
Bitcoin, quanta energia consuma il mining
Il dato sul consumo energetico del Bitcoin è estremamente variabile ed è correlato al suo prezzo: più il Bitcoin è caro, più viene incoraggiata in varie parti del mondo la costosa attività di estrazione. Al 26 settembre, il consumo annualizzato della rete Bitcoin assorbe 98,15 terawattora (Twh), ha calcolato l’Università di Cambridge, Centre for alternative finance. Questo consumo farebbe del Bitcoin il 34esimo Paese più energivoro al mondo, dopo l’Olanda e davanti alle Filippine. Se il Bitcoin fosse uno stato, consumerebbe più energia anche del Cile, dell’Austria, del Belgio o della Finlandia. Ma i livelli di consumo attuali, pur elevati in un ottica storico, sono ancora ben al di sotto del picco toccato intorno a metà maggio, quando il consumo del Bitcoin era di ben 130 Twh. Si trattava di un consumo superiore rispetto a quello dell’Ucraina, un Paese da oltre 44 milioni di abitanti. Vista da un’altra prospettiva, l’energia consumata dal Bitcoin rappresenta lo 0,44% di tutti consumi su scala mondiale.
La mappa del mining mondiale più aggiornata risale ancora all’aprile 2021 e precede le più recenti strette del governo cinese su tali attività. Allora, aveva luogo in Cina il 46% di tutte le attività di estrazione di Bitcoin al mondo, di gran lunga avanti rispetto agli Stati Uniti.
Nel 2020 la quota cinese aveva iniziato a ridursi dal momento che la crescita del prezzo del Bitcoin aveva reso economicamente redditizio il mining anche in altre parti del mondo, in cui l’energia elettrica costa un po’ di più. Oltre il 60% dell’energia elettrica generata in Cina proveniva ancora dalla combustione del carbone.
La lotta al mining delle criptovalute potrebbe aprire ad opportunità in altre parti del mondo: “I perdenti in tutto questo sono chiaramente i cinesi”, ha detto a Reuters il capo della ricerca al gestore di asset digitali CoinShares, Christopher Bendiksen, “ora perderanno circa 6 miliardi di dollari di ricavi annuali legati al mining, che andranno tutti alle restanti regioni globali”. A partire da Stati Uniti, Russia e Kazakistan.