Il più grande fondo sovrano del mondo ha annunciato di voler diversificare il suo portafoglio con investimenti in aziende non quotate. Perchè aziende e investitori non trovano più di interesse incontrarsi in Borsa?
L’ultima notizia sul tema delle borse arriva dalla Norvegia: Norge Bank Investment Management (NBIM), che gestisce il fondo alimentato dai proventi petroliferi e che ammonta a 1.100 miliardi di dollari, ha fatto richiesta al Ministero delle Finanze Norvegese, da cui dipende, di poter iniziare a investire anche in aziende non quotate in borsa. Al momento il fondo possiede percentuali di azioni non superiori al 10% di ogni principale azienda quotata al mondo, con una media di possesso del 1,5%.
Le motivazioni addotte per tale scelta sono: la scarsa partecipazione di aziende tecnologiche ai listini, che li condannano a non rappresentare la maggior parte del mercato, l’assottigliarsi dei listini stessi e ultimo, ma non meno importante, i ritorni delle aziende non quotate che sono leggermente più alti di quelle quotate.
Che le borse in USA e UK, che sono le piazze principali, non siano più così attraenti come in passato è evidente da tempo. Oltreoceano i listini si sono dimezzati nei passati 15 anni. Analoga sorta è toccata a quelli anglosassoni, tanto che in una consultazione sulla corporate governance lanciata dal governo inglese l’anno scorso, si avanzava l’ipotesi di estendere gli obblighi delle quotate anche alle non quotate, vista la crescente scarsità delle prime.
Un ulteriore segno di questo declino è la crisi delle società di “flash trading”, ovvero quelle che praticano il trading ad altissima frequenza (millisecondi o meno: High Frequency Trading, HFT). La scarsità dei titoli, e la loro bassa volatilità , non consente più di portare a casa i guadagni di una volta. Anche l’ingresso dell’intelligenza artificiale nei listini ne è un segno. Per quanto “intelligente” questo software, perchè è bene ricordare che sempre di software si tratta, deve essere programmato. Tale programmazione è fattibile a fronte di scenari prevedibili e ristretti.
C’è poi da citare il comportamento delle aziende, sopratutto tecnologiche. Queste non hanno davvero bisogno dei soldi di un’IPO per svilupparsi (per chi ne volesse avere conferma si vada a leggere la parte “uso dei proventi” del prospetto informativo dell’IPO di Facebook!), ma solo di rendere “commerciabili” le azioni in possesso ai primi investitori e dare un valore alle stock option date ai dipendenti.
Inoltre le azioni disponibili sul mercato possono essere acquistate da chiunque, in particolare da aggressivissimi hedge fund (gli activist) che arrivati ad una certa percentuale impongono la loro linea di sviluppo, spesso in contrasto con quella degli altri share e stakeholder e finalizzata solo a massimizzare il loro ritorno (in Italia ne abbiamo un primo caso con l’affare Vivendi-Mediaset-Telecom con Bollorè nel ruolo di activist). Le aziende allora cercano di proteggersi riservando azioni per i fondatori con più diritto di voto per azione (è il caso di Facebook, Google, e tante altre dove i fondatori con meno del 15% di azioni hanno il potere di voto per oltre il 50%) fino al paradosso della quotazione di Snapchat che offrì in occasione della sua IPO azioni senza diritto di voto!
Che senso ha essere proprietari di un’azienda senza contare nulla?
Ultimo, ma non meno importante, la borsa sembra affetta da un “virus” che infetta, in maniera circolare con un diabolico meccanismo di autoalimentazione, sia le aziende che gli investitori: lo short termism. Si tratta dell’interesse a breve termine che spinge le aziende a concentrarsi sui ritorni a breve a scapito di investimenti ed esecuzione di piani di sviluppo a lungo termine. Anche se sofferti e denunciati sia dalle aziende, che sono impossibilitate ad eseguire i loro piani, che dagli investitori, sopratutto quelli istituzionali che temono la perdita di valore in futuro, il fenomeno è una vera pandemia. Provate a leggere le dichiarazioni dei nostri CEO dell’indice FTSE MIB in occasione delle chiusure dei risultati annuali e la presentazione dei piani futuri. La prima affermazione riguarderà la remunerazione degli azionisti !
Dunque il “mercato borsistico” sembra non essere più adeguato all’incontro tra finanza ed economia reale come in passato. Tale incontro avviene sempre più spesso in sede “privata” con ingaggi diretti che hanno il vantaggio di una più serena e consapevole collaborazione, a tutela di entrambe le parti.
Collaborazione “serena e consapevole” ha le sue fondamenta nella completa comprensione del piano di sviluppo dell’azienda, della sua strategia, perchè chiunque prima di dare i soldi a qualcuno vuole sapere questo qualcuno cosa ne farà , unica garanzia per vederseli non sono restituiti ma anche moltiplicati.
L’argomento però è totalmente ignorato da tutti. In primis dalle regolamentazioni delle autorità finanziarie (basta guardare in casa nostra le documentazioni richieste da Consob per un IPO e per la continuazione delle contrattazioni) e dei proprietari delle piazze borsistiche (idem per Borsa Italiana). Poi dalle stesse aziende che non sono in grado di esprimere in maniera compiuta e pubblica le loro intenzioni. Per ultimo anche gli investitori non sono in grado di farne richiesta circostanziata e precisa, minacciando nel caso il ritiro del loro appoggio. Infatti si affidano ancora a pratiche desuete di valutazione figlie dell’economia del secolo scorso che non esiste più.
Un ritorno al senso originale dell’incontro tra domande e offerta di proprietà azionaria deve allora recuperare questa dimensione strategica, fortemente richiesta da chi investe e chi riceve gli investimenti, stimolandola e rappresentandola correttamente. In difetto non accadrà nulla di male: la borsa, come la conosciamo oggi, lentamente si spegnerà lasciando il posto a modalità più innovative di investimento.
Come quelle che i norvegesi stanno iniziando a cercare.