A gennaio di quest’anno il numero due del governo, Philip Hammond, aveva annunciato ai media tedeschi che il Regno Unito avrebbe fatto di tutto, in un contesto post Brexit, pur di rimanere attraente per le imprese straniere, anche praticando un dumping sociale e fiscale. A luglio è però poi arrivato il parziale dietrofront, con il ministro del Tesoro che ha detto che Londra attuerà pratiche corrette e leali dal punto di vista concorrenziale in materia fiscale e di regulation.
Il modello economico, sociale e culturale britannico, ha spiegato Hammond, “potrà essere riconosciuto come europeo” anche dopo l’addio all’Unione Europea. Il Cancelliere non cercherà di tagliare fuori i paesi membri del blocco per attirare le grandi aziende in patria, come invece aveva suggerito a inizio anno in un’intervista concessa al quotidiano tedesco Welt am Sonntag in cui Hammond ha detto che il Regno Unito avrebbe fatto “tutto il possibile” per favorire l’economia dopo la Brexit.
Va considerato che nel Regno Unito è già in vigore la corporate tax più bassa tra i paesi del G20, il 20%. Si tratta dell’aliquota di imposizione fiscale diretta da applicare al reddito delle società operanti sul territorio. Persino gli Stati Uniti, considerati uno dei paesi con il regime più favorevole per le imprese, hanno un’aliquota al 35%, che con la prossima riforma fiscale voluta dall’amministrazione Trump dovrebbe scendere fino al 20%. Dal 2016 è stata introdotta inoltre una franchigia che consente alle imprese di non pagare alcuna imposta sulle prime 5000 sterline di reddito da dividendo.
A luglio il Cancelliere dello Scacchiere Hammond ha fatto capire però che Londra non vuole diventare un paradiso fiscale al pari delle varie giurisdizioni britanniche come Isole Cayman, dove vige l’esenzione delle imposte, e l’Isola di Mann, dove ci sono aliquote molto generose sulla tassazione del reddito. C’è poi anche Jersey che è stata inserita di recente nella “lista grigia” dei paradisi fiscali redatta dall’Unione Europea sui paesi con una legislazione che consente a privati e società di nascondere i loro guadagni al fisco europeo.
Come paradiso fiscale fuori dall’Ue Regno Unito non prospererebbe
Dopo la Brexit il Regno Unito non taglierà insomma le tasse ulteriormente e non avvierà un processo di deregolamentazione del sistema finanziario che renderà Londra un paradiso fiscale. Si tratta di un cambio di toni notevole rispetto a inizio anno, in un momento molto critico per il governo di Theresa May. Con le elezioni anticipate indette nel 2017 i conservatori al potere hanno indebolito anziché rafforzare i numeri e la loro leva parlamentare.
Dopo che il partito non gode più della maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni, i critici sostengono che il governo farà fatica a ottenere l’approvazione di un piano di legge sull’abbassamento del carico fiscale e sulla de-regulation. Dopo le dichiarazioni di gennaio Hammond è stato molto criticato per aver proposto di abbassare le tasse nel Regno Unito se Londra verrà esclusa dal mercato europeo.
“Se ci viene vietato l’accesso al mercato europeo, se siamo tagliati fuori, se Londra dovesse abbandonare l’Ue senza un accordo sull’accesso al mercato, allora rischiamo di subire un danno economico almeno nel breve termine”, ha spiegato Hammond allora, aggiungendo che in questo caso saremo costretti a cambiare il nostro modello economico per riguadagnare competitività”.
Dagli ultimi sviluppi si capisce che si trattava semplicemente di una minaccia campata per aria e che Londra non può permettersi di condurre una strategia così rischiosa che porterebbe a una guerra commerciale. Anche perché difficilmente il Regno Unito, accusato nel 2016 dallo scrittore Roberto Saviano di essere il cuore della corruzione globale per colpa dei suoi servizi finanziari, potrebbe prosperare come paradiso fiscale.
Secondo Nicholas Shaxson, autore del libro “Treasure Islands: Tax Havens and the Men Who Stole the World“, un nuovo status di paradiso offshore fuori dall’Ue non porterebbe solo ricchezza e patrimoni dei ricchi, ma anche soldi sporchi. Offrire scappatoie fiscali e lassismo finanziario attirerebbe infatti gli investimenti “sbagliati” in un periodo in cui l’opinione pubblica è scandalizzata per le rivelazioni di Panama Papers e Paradise Papers.
Detto questo il deputato conservatore Jacob Rees-Mogg è ancora convinto che le tasse sul reddito di privati e imprese vadano ridotte. “Se confrontate con il Pil, le imposte dirette sono al livello più alto dal 1996”, ha segnalato al The Times. “Non è dove ci dovremmo trovare e il livello andrebbe abbassato”. Abbassare la pressione fiscale non è una questione di “concorrenza sleale”, secondo lui, quanto piuttosto di “economia efficiente“.
A marzo il capo Ue dei negoziati sulla Brexit Michel Barnier ha avvertito che il blocco europeo avrebbe impedito che si arrivasse a un nuovo accordo commerciale con Londra se il governo britannico avesse abbassato ulteriormente la tassa sulle aziende. Le trattative sono ancora in fase di stallo e il tempo per approvare la prima serie di accordi sta per scadere.
Stando alle ultime indiscrezioni i leader dei 27 rimanenti paesi Ue dovrebbero dare il via libera in settimana all’accordo siglato da Barnier e David Davis, negoziatore per Londra. Questo consentirà di passare alla seconda fase dei negoziati per la Brexit. Gli analisti sono convinti che se verrà strappato un accordo entro il 2019, alla fine si assisterà molto probabilmente a un’intesa soft più che una rottura definitiva (‘Hard Brexit‘).