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(WSI) – Il discorso sullo Stato dell’Unione
domani, poi l’insediamento di Ben Bernanke
alla Federal reserve: la prossima
settimana per George W. Bush potrebbe
segnare una nuova ripartenza. Nel primo
anno del secondo mandato ha subìto
un crollo di popolarità e una serie di insuccessi
interni e internazionali. E nel
2006, alle elezioni di midterm in autunno,
si gioca il controllo del Congresso.
Con una maggioranza repubblicana
malmostosa e i democratici vogliosi di
rivincita, anche se stentano a trovare
una solida piattaforma sulla quale ricostruire
le basi della rimonta.
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Un presidente appannato ha
annunciato esattamente dodici
mesi fa una grande riforma,
quella della Social Security,
che ha incontrato più critiche
che sostegni anche tra i repubblicani.
Ha trovato una
dura resistenza, sia alla Camera
sia al Senato, sul rinnovo
della Home security. Lo scandalo delle
intercettazioni telefoniche ha rivelato
i rischi che si nascondono dietro il giro di
vite anti-terrorismo. Anche se il presidente
può vantare che finora sono stati
evitati altri attentati in casa da parte di
Al Qaeda, gli americani di fronte al dilemma
tra sicurezza e libertà individuali
stanno lentamente spostando il piatto
della bilancia verso le libertà.
Sul fronte esterno, la matassa irachena
resta intricata.
Le scadenze elettorali
sono state rispettate tutte e quelle politiche
hanno portato alla ribalta una forza
sunnita che era stata sottovalutata, ma
che adesso è benvenuta dalla svolta realista
della Casa Bianca e del Dipartimento
di Stato. Senza integrare i sunniti non si
governa e non si crea quel minimo di sicurezza
che consente di riportare a casa i
marines. Non si sa quando ciò sarà possibile,
ma ora che le condizioni della risoluzione
Onu stanno per essere realizzate,
sarà tempo per Bush di cominciare a presentare
agli americani una convincente
exit strategy. Il problema è che il Medio
Oriente si è fatto ancor più complicato. Il
riarmo nucleare dell’Iran apre una partita
estremamente complicata, che coinvolge
gli equilibri mondiali: i rapporti
con la Russia, la Cina, l’Unione europea,
oltre a quelli con il mondo islamico.Tutto
ciò mentre la vittoria di Hamas in Palestina
e la drammatica uscita
di Sharon dalla vita politica,
impongono un cambio di passo.
E non si capisce ancora in
quale direzione.
Ma il discorso sullo Stato
dell’Unione tradizionalmente
è dedicato agli affari domestici.
E qui per la prima
volta Dubya si trova a dover
affrontare una congiuntura economica
sfavorevole. Nell’ultimo trimestre dell’anno
il pil è cresciuto pochissimo, poco
più dell’un per cento.Molti cominciano
a paventare una recessione, soprattutto
se le tensioni energetiche si trasformeranno
(anche per l’influenza dei fattori
geopolitica), in una vera e propria crisi.
L’uso politico del gas russo colpisce
l’Europa, il greggio più caro anche in
termini di prezzi relativi colpisce l’America
e il Giappone. Mentre le due potenze
orientali, Cina e India, sono destinate
a spiazzare l’intero occidente che, così,
si trova alle soglie di una nuova emergenza;
la prima, di queste dimensioni, da
un quarto di secolo. L’energia sarà all’ordine
del giorno del G8 presieduto,
secondo gli impegni, proprio da Vladimir
Putin. Ma Usa e Ue dovranno arrivare
con una strategia comune.
Thomas Friedman, sul New York Times,
ha chiesto a Bush un gesto coraggioso,
una vera e propria «dichiarazione di
indipendenza energetica». Una idea provocatoria
perché si tratta di proporre agli
americani una sorta di austerità che cambi
in parte il loro regime di vita e riconverta
una economia energivora. Basta
con i Suv, basta con l’aria condizionata a
tutto volume, più trasporti pubblici e meno
privati, tanto per fare degli esempi
concreti. Ma richiede le dimissioni del vicepresidente
Dick Cheney che, visti i suoi
legami con l’oil business, non può certo
essere credibile nell’applicare l’Energy
Freedom Act. Una provocazione politico-
intellettuale al limite del paradosso,
però Friedman coglie il punto.
Bush non seguirà il suo consiglio radicale.
Quando Jimmy Carter propose nel
1979, in coincidenza con la seconda crisi
petrolifera, un giro di vite ai consumi, perse
la rielezione (ancor più che per il pasticcio
degli ostaggi in Iran).
Tuttavia, l’America
del 2006 sarà chiamata a compiere
scelte drastiche. E in questo giocherà un
ruolo chiave il nuovo presidente della Federal
reserve. In Bernanke, Bush trova un
amico e un vecchio consigliere. Ma anche
un uomo indipendente e un economista di
prim’ordine. Non sappiamo ancora quale
sarà la sua politica economica, ma sappiamo
che l’era dei bassi tassi di interesse è finita.
E con essa anche l’era dei megadeficit
(nel bilancio federale e nel commercio
con l’estero). Gli Usa dovranno ridurre
l’import, sostenere l’export svalutando il
dollaro e la domanda interna non potrà
più contare sul deficit spending e sul taglio
delle tasse. Bernanke, quindi, si trova di
fronte alla più difficile delle equazioni.
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