Una misura, quella della carbon tax, che potrebbe portare un effettivo contributo alla lotta contro le emissioni di CO2. Al via dal 1° ottobre, per ora è solo una fase sperimentale, e si limiterà solo a far rendicontare le emissioni dei prodotti importati in alcuni settori. Non verrà quindi applicato il tanto temuto dazio CO2, quello previsto per pareggiare il prezzo del carbonio prodotto in Europa rispetto a quello in altri paesi extra UE.
Infatti, se da una parte può contribuire alla lotta, dall’altro potrebbe essere un boomerang finanziario, visto che molti settori europei sono interdipendenti con diverse potenze extra UE, in primis la Cina. L’applicazione di misure come dazi (anche se previsti dopo il 2026), potrebbe creare un contraccolpo non solo finanziario, ma anche socio-politico. Anche perché, oltre al dazio, sono previste delle importanti sanzioni.
Carbon tax, cos’è e a chi si rivolge
Il termine “carbon tax” è in realtà improprio, visto che si parla del Carbon Border Adjustement Mechanism, “Meccanismo di adeguamento delle frontiere del carbonio“. Una vera e propria sperimentazione firmata Unione Europea, che vuole far pagare a chi oggi emette molta anidride carbonica il giusto prezzo. Da qui il termine popolare di “tassa sul carbonio“: il prodotto subirà un aumento del proprio prezzo finale qualora gli standard di produzione a cui è stato sottoposto non saranno in linea con quelli in vigore nell’UE.
Va detto però che dal 1° ottobre 2023, data di avvio di questa sperimentazione, non partirà alcun dazio. Questo perché ancora si parla di una “fase transitoria”. Come viene spiegato sul sito ufficiale del CBAM, fino alla fine del 2024, le aziende dovranno solo rendicontare i prodotti che passano alla frontiera UE. Potranno farlo secondo la metodologia UE, una equivalente a tre opzioni o su valori di riferimento predefiniti fino a luglio 2024. Poi dal 1° gennaio 2025 sarà accettato solo il metodo UE. E poi dal 1° gennaio 2026 si entra nella fase e “gli importatori dovranno dichiarare ogni anno la quantità di beni importati nell’UE nell’anno precedente e i relativi gas serra incorporati“. Da lì serviranno i cosiddetti certificati CBAM, ottenibili previo pagamento di una quota EU ETS (emission trade system), calcolata in base al prezzo medio settimanale d’asta in rapporto alla tonnellata di CO2 emessa. Questo è il dazio, la carbon tax.
E riguarderà sempre più prodotti, sempre più aziende. Fino al 2026 gli operatori dovranno solo rendicontare le emissioni dei prodotti importati nei settori considerati oggi ad alta intensità di carbonio, quali i settori della produzione di cemento, ferro e acciaio, alluminio, fertilizzanti, oltre che i produttori di elettricità e idrogeno. Entro il 2030 verranno introdotti altri prodotti coperti dall’EU ETS ma non nell’ambito CBAM, come quelli identificati come candidati idonei durante i negoziati.
Quali sono gli obiettivi della carbon tax
Come in parte già spiegato, la carbon tax punta “ad attribuire un prezzo equo al carbonio emesso durante la produzione di beni ad alta intensità di carbonio“, in particolare per quelli che entrano nell’UE. Altro motivo è quello di incoraggiare “una produzione industriale più pulita nei paesi extra-UE”. In effetti l’UE è pressoché la virtuosa nel panorama mondiale, con gli Stati Uniti ancora fuori dai Protocolli di Kyoto (e anche dagli accordi di Parigi durante l’amministrazione Trump), e con la Cina e l’India che insieme producono il 27% delle emissioni di CO2 nel mondo, secondo i dati del CDIAC per le Nazioni Unite.
L’UE continua col suo Green Deal, ma stavolta usa maniere forti, anche se con tempistiche molto dilazionate nel tempo. Se prima le quote di emissioni UE ETS erano gratuite, ora si va a chiedere per ognuna di esse un contributo in rapporto alle tonnellate di carbonio emesse. Un sostegno non solo alla decarbonizzazione dell’industria dell’UE, ma anche alla tutela delle imprese stesse, che si ritrovano con la concorrenza sleale di prodotti economicamente più competitivi grazie al fatto di non avere poche o alcuna legge in materia di emissioni, come accade nel mondo del fast fashion.
Obiettivo del CBAM è anche quello di catturare “più del 50% delle emissioni nei settori coperti dall’ETS“, come riporta il sito ufficiale. Per tutto questo periodo pilota istituzioni e aziende apprenderanno come raccogliere informazioni utili sulle emissioni incorporate, così da permettere da una parte una metodologia più precisa, e dall’altro il rispetto delle norme. In questo periodo sarà obbligatorio per gli operatori di segnalare solo le emissioni di gas serra (GHG) incorporate nelle loro importazioni (emissioni dirette e indirette), senza effettuare alcun pagamento finanziario o aggiustamento. Dopo però, oltre alla carbon tax, si rischiano le sanzioni. E queste non sono ben volute dai mercati.
Le criticità dei dazi e delle sanzioni previste
La carbon tax non sarà la panacea per la transizione energetica, al massimo un valido contributo nel lungo periodo a stimolare i partner esteri a introdurre nel proprio paese misure simil-europee. Il problema è come andrà a colpire i mercati. All’inizio la UE aveva proposto le ETS in via gratuita, per stimolare le aziende a non delocalizzare in paesi dove non ci sono norme anti-emissioni. Ora passa a sanzionarle, addirittura fino a 50 euro per ogni tonnellata di carbonio, se introducono in Europea prodotti altamente inquinanti. Ma questo riguarda anche i prodotti per la catena di produzione, come la componentistica auto. Infatti tra i detrattori della carbon tax c’è il settore automobilistico tedesco, come riporta Euractiv. Si ritroverebbe a dover affrontare nuove restrizioni burocratiche, senza nemmeno avere la sicurezza che la concorrenza estera si adegui alle normative UE. Si veda il caso delle auto elettriche cinesi, che stanno mettendo in crisi la Volkswagen.
Oltre a questo, il rischio della carbon tax è che possa danneggiare indirettamente lo sviluppo dei paesi emergenti. Come segnala Greenreport, la carbon tax ha anche il suo lato oscuro: uno di questi sarebbe il limitare la produzione nei paesi in via di sviluppo, che sarebbe controproducente. Perché per i paesi emergenti significherebbe privarsi di posti di lavoro e di benessere economico, e per noi sarebbe la fine del mercato dei prodotti a basso costo, tutti quelli che vengono incontro alla nostra domanda. Infatti, “elaborazioni basate sulle matrici input-output del database Wiod evidenziano che, nel 2009, il 36% delle emissioni di gas serra generate per soddisfare la domanda finale dei consumatori residenti in paesi dell’Unione europea (Eu27) proveniva fuori dai confini dell’Unione“.