«La cabina di regia era un’operazione di facciata, la Lega e Tremonti hanno fatto cadere pure la facciata». I centristi spiegano la loro ritirata dall’organismo di coordinamento delle politiche economiche e chiariscono, a scanso di equivoci, che la defezione non è certo uno sgarbo al coordinatore Gianfranco Fini, che l’asse An-Udc non si è rotto, anzi al contrario, il subgoverno Fini-Follini è tornato in campo più determinato che mai. Obiettivo: risolvere una volta per tutte l’anomalia Lega. Tramontata la moratoria pro-semestre della cabina di regia, le truppe subgovernative sono convinte che la strada per risolvere la crisi sia una e una sola: rimpasto. Meglio se senza la Lega («Ipotizzarlo non è più fantapolitica», dicono dall’Udc), in caso contrario con una formula che ridimensioni peso e ambizioni del Carroccio.
Per ottenere il risultato, Fini ha pronta anche la soluzione d’urto: «Sono pronto a dimettermi dal governo», avrebbe detto più volte ai suoi il vicepremier, fintando la mossa che senz’altro chiuderebbe il tormentone crisi sì, crisi no. Peraltro, secondo gli esegeti finiani, doppia è la finalità del leader di An, stufo di fare il vicepremier e dell’impalpabilità politica che il ruolo si porta appresso. La Farnesina, questo è l’obiettivo di Fini in un eventuale Berlusconi ter. Ma che il vicepremier sia accontentato o meno, al subgoverno interessa soprattutto mettere la Lega nelle condizioni di non nuocere.
L’avvertimento finale è partito. Per affossare nel giro di un paio d’ore il vecchio oggetto del desiderio, la cabina di regia, tra An e centristi non c’è stato nemmeno bisogno di coordinare le mosse. L’analisi della situazione è stata tutt’uno con la decisione comune di tornare al punto di partenza della verifica: «Diciamo – commenta una autorevole fonte centrista – che è stato come quando due amici si ritrovano al bar anche senza darsi appuntamento». A riazzerare la verifica due episodi su tutti: le bizze della Lega, che alla Camera ha votato col centrosinistra mandando sotto il governo e, a crisi riscoppiata, ha inscenato un happening di protesta sull’indultino (con tanto di t-shirt “patto elettorale saltato”). E più ancora, le indiscrezioni sui conti del Dpef pubblicate da alcuni quotidiani.
«Fini è intelligente – dice il ministro Giovanardi – ha visto cosa gli succede intorno e ne ha tratto le dovute conseguenze». E sul Dpef il portavoce di An Mario Landolfi la mette giù chiara: «Se i conti del documento sono già pronti, Fini che ci sta a fare in regia?». Quanto alla Lega, la conversazione di Landolfi è esplicita: «Berlusconi ci deve dire se è normale che una forza elettorale del tre e nove per cento, con un insediamento territoriale limitato, anzi radicata in due sole regioni, abbia diritto a dettare l’agenda politica nazionale». E Giovanardi controfirma: «A furia di tirare, la corda si spezza».
Si tratta, dicono in coro An e centristi, di questione che non può essere risolta con un volenteroso elenco di riforme. A Berlusconi si chiede di ridisegnare i nuovi rapporti di forza e glielo chiede anche chi, come Rocco Buttiglione, non sembra nutrire troppe speranze al proposito: «Ci vorrebbe un Andreotti o almeno un De Mita per spiegare a Silvio come si fa una verifica di governo», ha motteggiato con i suoi il ministro per le Politiche comunitarie. Il paradosso è che anche dall’altra sponda s’invoca lo stile Prima Repubblica, tanto che il capogruppo leghista Cè si dice stufo delle soluzioni a colpi di «pacche sulle spalle e contentini».
Questioni di metodo a parte, resta la difficoltà di chiudere una trattativa in cui nessuno ha più intenzione di concedere nulla all’altro e in cui gli insulti reciproci sono ormai consuetudine. Tocca al premier risolvere il brogliaccio: «An non si deve convincere di niente – ripete Landolfi – noi siamo già convinti, è Berlusconi che si deve convincere». E che altro si deve fare con la Lega, dice al Riformista il capogruppo alla Camera dell’Udc Luca Volontè, quando le truppe del Carroccio «non solo votano contro il governo, ma lo rivendicano pure»? Dopo la bagarre sull’indultino, poi, lo scontro è ulteriormente degenerato. «Sono indegni di stare in Parlamento», dice Volontè dei leghisti. Ma se sono indegni anche di stare al governo deve deciderlo Berlusconi: «Adesso il cerino è tornato nelle sue mani», dicono nell’Udc e ripetono: «Non è più fantapolitica, non è più fantapolitica».
Copyright © Il Riformista per Wall Street Italia, Inc. Riproduzione vietata. All rights reserved