L’Islam sta prendendo sempre più piede. Non solo a livello religioso per più fattori, come la differenza nel numero delle nascite o per la spinta delle attuali politiche europee che vedono, in sintonia con la Chiesa di Papa Francesco, una sempre maggior apertura all’integrazione della religione musulmana, trainata dal fenomeno dell’immigrazione.
Ora la religione si avvicina, e molto, ai confini del business. Per la precisione stiamo parlando del settore alimentare dove la nuova moda pare essere quella del cibo Halal, ovvero appunto gli alimenti permessi da Maometto.
La richiesta di tali cibi sarebbe infatti in crescendo al pari dei fedeli musulmani e, di conseguenza, le compagnie alimentari stanno cercando di accaparrarsi le quote di mercato di Paesi come Turchia, Algeria, Arabia, Indonesia, Bangladesh e Emirati; Stati appunto caratterizzati da forte presenza musulmana.
Come riporta “Il Messaggero”, l’esperto di finanza islamica e professore presso l’università Essec (business school francese) Cedomir Nestorovic, le aziende del settore alimentare sono a caccia delle certificazioni che si possono definire “Islam-compatibili”; questo perché “il mercato globale dei cibi Halal è stato valutato 1,3 miliardi di dollari nel 2018. Includendo anche cosmetici, farmaci e turismo Halal, arriviamo a 2,3 miliardi. Tra cinque anni saremo a 3 miliardi, con una crescita annuale del 6-8%”.
Un mercato, dunque, che vale ben quattro volte il mercato del lusso e che è in crescita come la religione e l’economia di quei Paesi.
Non è certo un caso se ad avere già la certificazione Halal sono multinazionali del calibro di Nestlè, Danone, Carrefour. Non solo, anche Kinder Bueno, Nutella e ovetti di cioccolata.
Per avere l’idoneità a vendere prodotti ritenuti coerenti con le norme dei seguaci musulmani bisogna che negli alimenti non siano presenti i cibi proibiti da Maometto, come ad esempio la carne di maiale.
Da questo punto di vista, il Brasile, uno dei Paesi più Cristiani al mondo, svetta nella classifica degli esportatori di carne “certificata islamica”, mentre la Danimarca per i formaggi.
Ma il business non si ferma qui. Il lato economico ha coinvolto anche le compagnie aeree (certe di loro si definiscono maggiormente Islam friendly) e i tour operator, che propongono pacchetti viaggio che non violino i concetti del Corano.
Sorge spontaneo, quindi, pensare che forti interessi economici, addirittura più grandi di quelli del settore del lusso, possano impattare e influenzare o indirizzare le scelte politiche e dare ancora più spinta a un fenomeno già in forte crescita come quello della religione musulmana.