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Chemi Peres. Innovazione per la pace

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Scienza e tecnologia possono trasformare il Medio Oriente in una regione startup. Parla in esclusiva Chemi Peres, Chairman del Peres Center for Peace and Innovation

 

Suo padre, Shimon Peres, era un leader, un poeta, un sognatore. È stato il nono presidente dello Stato di Israele, il Primo Ministro e premio Nobel per la Pace. Il Peres Center for Peace and Innovation mantiene viva la sua eredità. Quali sono gli obiettivi della Fondazione oggi?
“L’essenza di quello che facciamo è continuare il lavoro di mio padre. La sua eredità ci fa guardare avanti. Ha sempre voluto essere ricordato come qualcuno in grado di salvare la vita di un bambino. Alla Fondazione abbiamo un progetto dedicato ai bambini palestinesi, li portiamo in Israele per curarli e salvargli la vita. Ad oggi abbiamo salvato più di 30.000 bambini. Mio padre diceva sempre: non c’è niente che possiamo fare del passato, non possiamo cambiarlo. Dobbiamo focalizzarci sul futuro. Questo è ciò che fa il Peres Center for Peace and Innovation. Come prima cosa bisogna unire le persone per privatizzare il processo di pace. Un accordo di pace può essere firmato dai leader politici, ma dev’essere implementato dalle persone. Dobbiamo unire le forze: ebrei e arabi, israeliani e palestinesi, con progetti per conoscersi e capire quanto ci somigliamo e quante poche differenze abbiamo come esseri umani”.


Chemi Peres, Chairman del Peres Center for Peace and Innovation

In che modo la storia di Israele è legata alla parola ‘Innovazione’?
“Nel Centro raccontiamo la storia di Israele dal punto di vista imprenditoriale e dell’innovazione in cinque fasi racchiuse in un arco di 100 anni. La prima fase è quella del sogno di Israele, che è stato guidato da Theodor Herzel, il visionario dello Stato del popolo ebraico. La seconda fase è quella di stabilizzazione: dopo che Herzel ci ha convinto di questo stato utopico, abbiamo dovuto costruirlo. Israele è una terra povera senza risorse naturali. Uno Stato come il nostro può svilupparsi solo con la forza della mente e l’innovazione. Questo è il motivo per cui Israele è diventato una superpotenza in termini di tecnologie agricole e idriche, desalinizzazione dell’acqua e utilizzo dell’energia solare. La terza fase è quella di costruire un’industria della difesa che si basi sulle nostre capacità intellettive. Mio padre è stato uno dei maggiori sostenitori di questo progetto, facendo costruire prima l’impianto nucleare di Dimona e poi creando l’industria aerospaziale israeliana. Ha introdotto i computer nelle forze armate per creare ciò che oggi chiamiamo cybersecurity e cybertechnology. La quarta fase riguarda la nostra economia. Quando mio padre è diventato Primo Ministro per la prima volta nel 1984, lo Stato aveva un tasso di inflazione del 450%. Israele non ha un mercato nazionale e non aveva nulla da offrire al mondo. Abbiamo preso la creatività e l’innovazione dall’esercito e insieme alla nostra capacità di produrre cibo, acqua ed energia abbiamo creato un’economia basata sulle nostre abilità. Alcuni la chiamano la ‘startup nation’. Abbiamo trasformato la nostra economia in un’economia globale che sfrutta le nostre capacità per creare aziende che offrono soluzioni software. Oggi in Israele abbiamo 500 aziende globali e 7.000 aziende israeliane che si distinguono ogni anno in quello che fanno. Quest’anno capitalizzeremo 20 miliardi di dollari”. 

L’innovazione può garantire la pace?
“Quando pensiamo alla pace dobbiamo chiederci: come possiamo crearla con i nostri vicini? Con la scienza e la tecnologia possiamo trasformare il Medio Oriente in una regione startup. L’intera regione può contare sulle capacità delle nuove generazioni di creativi e imprenditori per creare posti di lavoro e industrie. Bisogna allontanarsi dalla dipendenza dal petrolio e dal gas naturale per passare a un’epoca focalizzata sulla scienza e sulla tecnologia. In questo modo Israele e il Medio Oriente potrebbero affrontare il futuro con una piattaforma comune”. 

Come si arriva quindi alla quinta fase dello Stato di Israele?
“Il Peres Center for Peace and Innovation ha due mission statement: il primo è di continuare a rafforzare Israele. Per mio padre è sempre stato molto importante che Israele continuasse a crescere e svilupparsi. Vogliamo continuare il lavoro dei padri fondatori: sognare in grande, perseguire gli stessi sogni e sostenere i nostri valori mentre cresciamo. Allo stesso tempo, dobbiamo calmare l’oceano che ci circonda, l’antisemitismo e le guerre: entrare in una nuova era di collaborazione. In altre parole utilizzare l’innovazione come piattaforma per arrivare alla quinta fase del nostro Paese: la pace”. 


Il Peres Center for Peace and Innovation nel quartiere arabo di Jaffa, a sud di Tel Aviv, disegnato dall’architetto italiano Massimiliano Fuksas

Come state lavorando per migliorare la società israeliana?
“Stiamo lavorando intensamente all’interno della società, che è divisa tra laici e ultra-ortodossi, ashkenaziti e sefarditi, persone altamente istruite e non, tra la periferia e lo Stato di Tel Aviv. Lavoriamo sulla solidarietà, vogliamo intraprendere un percorso di educazione, di convivenza e seguire quello che diceva mio padre: ogni persona ha diritto a essere uguale e un uguale diritto a essere diversa. Invece di parlare di destra o sinistra politicamente, il Peres Center fa riferimento a un nuovo asse che guarda al futuro invece che al passato. Sosterremo ogni programma che faccia andare avanti la società israeliana e saremo sempre contro tutto ciò che ci fa tornare indietro”.

Le donne nella società israeliana sono esempi da seguire e la loro visione può portare a cambiamenti significativi e creare un mondo migliore. Cosa sta facendo la Fondazione per dare loro forza?
“Mio padre ha sempre detto che la pace nel mondo si può ottenere solo se si danno uguali diritti alle donne, perché non può esistere una democrazia se non vi è uguaglianza. Israele è una democrazia a favore dell’emancipazione femminile. Oggi il 90% delle persone che lavorano al Peres Center sono donne. Lo staff del Peres Center è sempre stato femminile, così come lo staff di mio padre quando era Presidente. Quando ha lasciato il suo incarico politico abbiamo unito i due gruppi. Al Peres Center ogni anno scegliamo 12 donne leader in diversi ambiti e le premiamo con il nostro cavalierato. Sono modelli d’ispirazione e non sono solo donne israeliane: abbiamo premiato Ariane de Rothschild, che è francese, per il lavoro che svolge con il fondo Rothschild in Israele. Abbiamo una donna ultra-ortodossa che è diventata il primo medico nella società israeliana: è la prima della sua comunità ad avere intrapreso degli studi così difficili, ad avere un dottorato di ricerca e ad essere la fondatrice di una startup nel settore sanitario”.


In alto, la Innovation Room. Sotto, il Peres Center for Peace and Innovation è un parallelepipedo ottenuto dalla stratificazione di piani irregolari di vetro e di cemento

Qual è la sfida di Israele oggi?
“La nostra esistenza in Medio Oriente va stabilizzata: siamo molto forti militarmente ed economicamente, ma non abbiamo ancora raggiunto la pace. Una grande minaccia arriva dall’Iran. Abbiamo dovuto sviluppare un’industria della difesa molto solida. Abbiamo avuto donne nei ruoli di primi ministri – come Golda Meir -, ministri, capi di banche, capi di aziende, capi di università, in Parlamento, ma nell’industria della difesa le donne non hanno ancora avuto modo di ricoprire dei ruoli decisionali. Non abbiamo mai avuto una donna come Ministro della Difesa, come Capo di Stato Maggiore, non abbiamo mai avuto una donna alla guida del Mossad, dell’aeronautica, della marina o di qualsiasi altra unità operativa. Non ci siamo ancora arrivati, siamo un Paese piccolo e ancora molto giovane”.

 Cosa rappresenta per lei l’Italia e cosa può rappresentare per Israele?
“Dal mio punto di vista ci sono due Paesi che spiccano in Europa: l’Italia e la Francia che sono il trionfo dell’architettura, della cultura, del cibo, dell’arte, del vino, del calcio, della moda e delle automobili. È anche la bellezza delle città – Roma e Parigi – a rendere questi Paesi suggestivi. La loro lingua è sensuale, è come ascoltare della musica. Per me l’Italia si distingue come una superpotenza di stile. Per quanto riguarda il Peres Center sono molti gli aspetti che legano i nostri due Paesi: l’edificio è stato realizzato dall’architetto italiano Massimiliano Fuksas, una delle nostre consigliere di amministrazione, Manuela Dviri, è italiana. Grazie a lei uno dei grandi progetti del Peres Center, che è quello di salvare i bambini, è sostenuto dall’Italia. Lapo Elkann è un grande amico, così come John Elkann.
Quando il Giro d’Italia è venuto in tour per tre giorni è partito da qui. Inoltre, due dei congressi a cui mio padre ha sempre partecipato erano il World Economic Forum a Davos e il Forum The European House – Ambrosetti in Italia. Molti fili uniscono l’Italia a Israele, ma possiamo fare di più”.


L’installazione Dream Big all’ingresso del Peres Center for Peace and Innovation

Shimon Peres era un grande sognatore, il suo segreto era l’ottimismo. Diceva: “Gli ottimisti e i pessimisti muoiono allo stesso modo, ma vivono diversamente. Io preferisco essere ottimista”. Lei ha preso da suo padre, signor Peres?
“Assolutamente. L’ottimismo è uno strumento che ti costringe a guardare in alto. Se sei un pessimista tendi sempre a guardare verso il basso senza scoprire le stelle nel cielo. L’ottimismo è una piattaforma per andare avanti, per osare, per fare cose nuove. Mio padre era un’ottimista per scelta. Io prendo da lui. Mi diceva sempre: non esistono situazioni disperate, solo persone disperate. Se le persone sono disperate, non riusciranno mai ad avere successo. Anche se la situazione può sembrare difficile, vi è sempre un lato positivo. Stiamo per celebrare il 45° anniversario dell’operazione Entebbe: se fossimo stati pessimisti, non avremmo mai potuto realizzare un’operazione di questo calibro”. 


La Israeli Expo Room

Sta espandendo il lavoro della Fondazione anche fuori da Israele: quest’anno ha guidato una delegazione di professionisti israeliani negli Emirati Arabi per facilitare la cooperazione tra i due Paesi. Qual è il suo obiettivo finale?
“Quando abbiamo visitato gli Emirati Arabi, in seguito agli accordi di Abramo, mi è subito stato chiaro che gli Emirati e Israele hanno un legame. Non ho mai visto un Paese così concentrato sul futuro, sull’innovazione, sull’affrontare minacce globali. Abbiamo la responsabilità di fare sì che questi accordi funzionino, dobbiamo considerarli una piattaforma di collaborazione e insieme essere un modello per gli altri Paesi in Medio Oriente. Finirò questa conversazione con una frase che mio padre disse quando lavorava con l’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin: due sono più di due e uno è meno di uno. Lavorando insieme a Rabin, i due hanno ottenuto molto di più di quanto ciascuno avrebbe potuto ottenere da solo. Israele e gli Emirati Arabi insieme sono più di due Paesi, ma ciascuno è meno di uno quando si parla di costruire la pace nella regione”. 

Questa intervista è stata possibile grazie al prezioso aiuto di Menachem Gantz, MGKonnect, consulente marketing e comunicazione Italia-Israele. 

 

L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di luglio del magazine Wall Street Italia.