ROMA (WSI) – Alessandra Galli, la presidente della Corte d’appello che ieri ha condannato Berlusconi, era una mia compagna di scuola, al Berchet di Milano, più di trent’anni fa.
L’ultima volta che l’ho vista era in lacrime, poco dopo l’omicidio di suo papà.
Era l’anno della mia maturità, lei si era diplomata l’anno prima e faceva già Giurisprudenza, alla Statale: dove appunto uccisero suo padre.
Anche lei, Alessandra, era in Statale quel giorno. Al bar, mi pare. Era da poco primavera e nei giardinetti della Guastalla, lì accanto, erano appena fiorite le Forsythie gialle.
Non eravamo amici stretti, ma la conoscevo abbastanza. Soprattutto perché durante il liceo stava con un uno dei miei migliori amici, uno di quelli che vedo ancora adesso.
In quegli anni di manifestazioni, occupazioni e cortei, Alessandra si teneva in disparte. Non faceva politica, né come militante né come simpatizzante. Anzi, guardava con un po’ di altero distacco noi che facevamo ‘casino’. Lei studiava e basta. Mi pare che avesse la mezza idea fare la grafica, da grande, prima di decidersi a seguire le orme del padre: a fare della legge e della sua applicazione un culto e una ragione di vita.
Immaginatevi quanto possa essere ‘comunista’ e ‘toga rossa’, poi, una che ha visto il papà ammazzato da Prima Linea.
Ma pensate anche a quanto sia indecente l’accusa di aver emesso, lei, «una sentenza politica per favorire i disegni disgregatori del nostro Paese, con una condanna che non colpisce Berlusconi ma chi l’ha pronunciata» (Brunetta). O di «voler allontanare la stagione della pacificazione negando con ostinazione la verità» (Schifani). O peggio ancora – mio Dio, che cattivo gusto – di essere un giudice «armato fino ai denti, guerrafondaio e inconsapevole della fine della guerra» (D’Alessandro).
Lavarsi la bocca, questo solo dovrebbero fare, questi coprofili del Caimano, prima di parlare di Alessandra Galli.
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