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Cina ancora nel mirino: Moody’s taglia stime PIL 2024. Tra le sfide resta l’immobiliare

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La Cina resta una sorvegliata speciali sui mercati. Lo conferma la recente decisione di Moody’s, con l’agenzia di rating  Usa che le ha garantito lo stesso rialzo dato agli Stati Uniti per il 2023, e ora il Dragone si ritrova con un taglio che riduce le stime del PIL  per il 2024.  Da anni il Governo Cinese ha fatto suo il voler mantenere la crescita del PIL attorno al 5%.

Ma col nuovo scossone proveniente dal settore immobiliare, specie dopo lo scoppio del caso Evergrande e la sua richiesta di risanare il debito, il Governo si è posto sfide di crescita e soluzioni che poco hanno a che vedere con le riforme tanto richieste da diversi analisti del settore.

Cina, Moody’s taglia le stime PIL per il Dragone

Alla pubblicazione delle stime PIL il Dragone non ha avuto una bella sorpresa, specie da un’agenzia di rating come Moody’s. Se per gli USA la situazione è positiva, addirittura con un rialzo delle previsioni di crescita, per la Cina le previsioni del PIL sono state  tagliate dal 4,5% al 4%, andando così al ribasso di quanto stimato nel report precedente. Anche se per il momento solo per l’annata 2024: Moody’s conferma comunque il mantenimento per il 2023 dell’obiettivo 5%. E questo per gli ultimi eventi, che nel lungo periodo potrebbero mettere il PIL della seconda potenza mondiale sotto pressione.

Come riportato da Reuters, per Moody’s a pesare sul calo delle stime PIL di quest’ultimo report sono le “considerevoli sfide di crescita”, specie davanti a dati macroeconomici che fanno intendere un calo della fiducia da parte di imprese e consumatori, nonostante lo slancio osservato a inizio anno:

“I dati provenienti dalla Cina suggeriscono che la ripresa economica derivante da una prolungata politica zero-COVID rimane contenuta, poiché lo slancio di riapertura osservato a marzo, aprile e maggio sembra essere in declino […] Crediamo che la scarsa fiducia dei consumatori stia frenando la spesa delle famiglie, e l’incertezza economica e politica continuerà a pesare sulle decisioni aziendali”.

A questo si aggiunge anche il contesto di incertezza economica e politica in cui versa la Cina, e dei problemi in cui versa il Paese asiatico: dai continui problemi del settore immobiliare fino all’invecchiamento della popolazione attiva. In conclusione, Moody’s indica comunque per la Cina un rating A1, ovvero quattro livelli al di sotto del massimo grado Aaa degli Stati Uniti. Ma con una prospettiva stabile, infatti il taglio non riguarda il 2023, ma il 2024.

Tra le sfide del Dragone anche il sostegno all’immobiliare

Ma quanto è preoccupante il quadro economico della Cina? Molto, sembrava durante i giorni relativi alla presentazione della richiesta di Chapter 15 da parte di Evergrande, così come quando trapelò la notizia del mancato pagamento da parte del colosso Country Garden di alcune cedole relative a due obbligazioni in dollari USA. E così anche davanti al mancato pagamento di alcuni interessi da parte del trust ZhongRong. In realtà ora la situazione appare più stabile. Lo confermano le performance di alcune big del settore real estate cinese, tra cui Country Garden Holdings che ha chiuso con un rialzo di oltre il 14%.

Il motivo di questa ripresa, successiva al downgrade proclamato da Moody’s, non è solo dovuta all’approvazione dell’estensione dei pagamenti per Country Garden, e quindi di una boccata di ossigeno per la sua situazione altrimenti critica. La ripresa è dovuta al fatto che tra le “sfide di crescita” la Cina ha voluto mettere il settore immobiliare ora in crisi. La Banca popolare cinese ha allentato alcune regole sui prestiti e ha tagliato il coefficiente di riserva obbligatoria per i depositi in valuta estera dall’attuale 6% al 4% a partire dal 15 settembre. A questo si aggiunge anche il taglio dei tassi d’interesse sui depositi presenti in 3 major bancarie (Industrial and Commercial Bank of China, la China Construction Bank Corp e l’Agricultural Bank of China).

La Cina si mostra pertanto protettiva nei confronti dell’immobiliare, o meglio col settore bancario finanziere del real estate. Con un’altra riduzione dei tassi d’interesse, si allargherebbero così i margini di profitto delle banche. Un sollievo per tutte quelle shadow banks ad un passo dall’insolvenza a causa dei mancati pagamenti. Ma come soluzione potrebbe essere inefficace nel lungo periodo: più lo yuan va verso il ribasso, più c’è il rischio di innescare vendite sulla valuta cinese e fughe di capitali. E questo davanti al fatto che la Cina, nelle sue sfide per la crescita, non sta proponendo alcuna riforma sistemica.

Il nodo delle riforme in Cina

Rispetto alla Cina, gli USA hanno dimostrato di saper rimettere in asse una situazione economica vacillante. Recenti sono i dati sulla disoccupazione, con oltre 187.000 posti di lavoro in più. Più anche il fatto che in un anno l’inflazione sia più che dimezzata, nonostante le preoccupazioni del capo della FED Powell. Per Moody’s la situazione è tale che le previsioni di crescita sono passate da 1,1% a 1,9% per gli Stati Uniti, forte anche dello slancio economico di fondo registrato. Quello che appunto sta mancando alla Cina.

USA e UE continuano ad aumentare i tassi per ristabilire l’inflazione, mentre la Cina continua a tagliarli nonostante sia ormai evidente la criticità della loro inflazione ormai quasi a zero. E di molti altri fattori sopraccennati, su cui ancora il Dragone non ha espresso alcun piano strategico efficace. Eppure lo stesso professor Giuliano Noci, in un’intervista a WSI, aveva notato come la soluzione, almeno per il calo dei consumi, sarebbe abbastanza semplice: dare maggiori diritti alle popolazioni autoctone, così da renderli consumatori. Una soluzione che al momento non sembra la Cina stia valutando. Anzi, c’è il timore tra gli analisti che la Cina stia tornando a posizioni fortemente protezionistiche, ancorate ad un passato incompatibile con l’attuale mercato.

I timori di Scope

A prova di questo timore c’è il recente report di Scope. Oltre ai livelli di debito sempre più insostenibili, passati dal 60% nel 2019 al 77% del PIL nel 2022, si teme che il livello di indebitamento supererà il 100% del PIL entro il 2027. A sua volta la forza lavoro rischia di andare in stagnazione, con una popolazione diminuita dopo 60 anni di circa 850.000 unità. Nel report a cura di Eiko Sievert e Alessandra Poli si evidenzia come il rischio di errori politici sia aumentato in quanto le autorità cinesi cercano di affrontare gli squilibri finanziari, tra cui l’elevato debito delle amministrazioni centrali e locali, passando al contempo a un modello di crescita guidato dai consumi attraverso riforme strutturali.