Lanciato un anno fa, il programma Bond connect ha già attratto l’attenzione degli investitori istituzionali. Il suo obiettivo è rendere più semplice e affidabile l’investimento nel reddito fisso cinese
Il mercato obbligazionario cinese è il terzo più grande al mondo e potrebbe raddoppiare le sue dimensioni nel giro di dieci anni, passando da 11mila a oltre 20mila miliardi di dollari. Davanti ci sono solo Stati Uniti e Giappone, con rispettivamente 14mila e 12mila miliardi di dollari.
Eppure, nonostante queste dimensioni, il mercato obbligazionario cinese è ancora prevalentemente domestico, fatto di operatori locali. Almeno finora. Per Benoit Dethier, European head of Asian flows security services di Citi
“oggi non si può non essere presenti sul mercato obbligazionario cinese visto che rappresenta il terzo al mondo e ha ancora un grande potenziale di crescita”
Questo potenziale è testimoniato dall’interesse suscitato dal programma Bond connect, lo schema di trading e settlement ideato per permettere l’accesso al mercato cinese agli investitori istituzionali esteri, tramite le istituzioni di Hong Kong.
Da Stock connect a Bond connect
“Fino a qualche anno fa – spiega Scott Harman, managing director Fixed income & Multiasset di Ftse Russell – gli investitori che volevano accedere agli asset finanziari cinesi, azioni e obbligazioni, dovevano compilare moduli, fare richieste, attendere risposte. Un processo molto macchinoso che poteva essere accettato dalle banche centrali ma non adatto agli asset manager e ai fondi pensione. Per questo l’introduzione dello Stock connect nel 2014 è stato un grande successo e ora si replica con il Bond connect. Bond connect è nato lo scorso anno con l’obiettivo di facilitare l’accesso a questo grande mercato. Finora il numero di operatori su questo mercato è rimasto contenuto perché la Cina è stata assente dai principali indici”.
Oggi i mercati finanziari cinesi hanno tutte le caratteristiche per essere inseriti negli indici internazionali, come dimostra anche l’ingresso delle azioni negli Msci. Lo stesso avviene ora per il mercato obbligazionario.
“L’unico vero problema è l’accessibilità a questo mercato. Gli index provider si stanno interfacciando con i loro clienti per vedere come inserire la Cina negli indici. Saranno necessari degli aggiustamenti per inserirla” conclude Harman.
“Sarà un percorso lungo – conferma Julien Martin, general manager di Bond Connect -. L’inclusione negli indici globali non avverrà tanto in fretta ma sarà graduale proprio per le dimensioni del mercato del reddito fisso cinese”.
L’interesse degli investitori stranieri comunque c’è. E non potrebbe essere altrimenti viste le caratteristiche del mercato cinese che Martin riassume così:
“Rendimenti elevati, bassa correlazione con gli altri mercati, moneta forte. Rappresenta un buon rifugio quando altre aree geografiche si muovono al ribasso”.
Internazionalizzazione del mercato cinese e del renminbi
L’interesse degli investitori è testimoniato anche da una seconda cifra. Da quando Bond connect è stato varato, circa 8 mesi fa, la partecipazione straniera al mercato si è incrementata del 48%, arrivando a coprire un valore di 1,246 miliardi di renminbi. L’obiettivo è di arrivare al 15% di partecipazione straniera al mercato del credito fisso cinese, dal 2% attuale che rappresenta una percentuale molto bassa anche rispetto a un mercato molto domestico, come quello giapponese (8%). Per fare un confronto, la presenza estera sul mercato italiano è del 38% e raggiunge punte del 68% in Germania.
“L’obiettivo di questa apertura del mercato del credito cinese – riprende Dethier – non è solo attrarre capitali ma si inserisce nel percorso di apertura ai mercati che le autorità cinesi stanno perseguendo e che ha visto, qualche anno fa, il primo passo con l’inaugurazione dello Stock connect. Quello che più interessa alla Cina è internazionalizzare il renminbi e ottenere un riconoscimento a livello internazionale. La Cina, uno dei maggiori Paesi esportatori e fino al 2009, quando è stato introdotto il renminbi offshore, tutti gli scambi venivano effettuati in dollari, ossia in una valuta che non era sotto il suo controllo”.