Gli investitori devono rimanere al passo con gli sviluppi tra Usa e Cina e comprenderne le prospettive così da identificare le aziende vulnerabili
di Kim Catechis, Head of Investment Strategy di Martin Currie
Dopo quattro anni di escalation della sfida commerciale e a quasi un anno dall’inizio della prima vera pandemia globale degli ultimi 100 anni, la situazione geopolitica ed economica sembra destinata a tornare sulle montagne russe.
Pechino e Washington hanno opinioni molto diverse su come dovrebbe funzionare l’ordine internazionale e mentre gli Usa aumentano la pressione, la Cina non arretra di un passo. Se Stati Uniti e Cina non riusciranno a trovare un accordo che supporti il normale funzionamento del sistema internazionale, è certo che entrambe cominceranno a schierare le proprie formazioni geopolitiche.
Molti paesi (come Messico e Pakistan), anche a causa della loro vicinanza geografica e dai profondi legami economici che intrattengono con le due potenze, non saranno in grado di resistere alla chiamata di Usa e Cina. Nel frattempo, il resto del mondo si trova in una sorta del limbo, nel tentativo di rimanere neutrale nonostante le pressioni che arrivano da ambo le parti.
Usa, la strategia
È molto probabile che Washington continui a fare pressioni sugli alleati e sui Paesi terzi affinché si uniscano negli sforzi per isolare la Cina e continuare a imporre sanzioni alle società cinesi.
Australia, Nuova Zelanda, Canada e Regno Unito sono membri dell’alleanza di condivisione dell’intelligence, Five Eyes, e sono già impegnati per rimanere al fianco degli Usa. Il Messico, di fatto, non ha alternative, tale è la dipendenza economica del paese dagli Stati Uniti.
Più difficile convincere l’Unione Europea a schierarsi; gli europei, essendo istintivamente portati al multilateralismo, preferirebbero fissare dei propri parametri per la gestione dei rapporti con la Cina. Nell’Indo-Pacifico, l’amministrazione Trump ha cercato di rilanciare il “Quad” (Quadrilateral Security Dialogue) come base di un’alleanza anti-cinese, ma non è chiaro se India e Australia la vedano allo stesso modo.
L’aliquota media dei dazi doganali sui beni cinesi è passata dal 3% al 19% tra gennaio 2018 e marzo 2020, un aumento di oltre sei volte. C’è quindi molto margine di riduzione, soprattutto quelli sui beni intermedi, che penalizzano le aziende statunitensi aumentando i costi e rendendo di conseguenza non competitivi i loro prodotti finali. Logicamente, un’amministrazione pragmatica ridurrebbe questi dazi con giudizio, utilizzando invece misure di diversa natura per i settori più sensibili.
Sul versante finanziario, il Public Company Accounting Oversight Board (PCAOB) non è riuscito a ottenere un accordo con le autorità cinesi per ottenere l’accesso ai registri di audit delle società cinesi, e nell’attuale clima è stata presentata l’opzione “atomica”: la SEC potrebbe proibire la negoziazione di azioni di società che non hanno affrontato un’ispezione PCAOB per tre anni consecutivi. In tal senso il Senato americano, grazie ad un accordo bipartisan, ha già presentato una proposta di legge. La normativa cinese stabilisce però dei limiti alla divulgazione delle informazioni e attualmente vieta alle società di accounting cinesi (comprese le affiliate locali di società internazionali) di condividere la documentazione di revisione sulle società, per motivi di sicurezza nazionale.
Di fatto, questo delinea la prospettiva concreta che la Cina diventi un altro paese nella lista di quelli verso cui gli investimenti sono sottoposti a restrizioni, come Iran e Sudan. Ciò limiterebbe chiaramente l’universo investibile per gli investitori basati negli Stati Uniti, ma potrebbe potenzialmente diventare una condizione per accordi commerciali o patti di difesa: ovvero che un paese terzo che firma un accordo con gli Stati Uniti debba rinnegare le relazioni con la Cina. Questo è forse l’impatto di più vasta portata per gli investitori a breve termine, sebbene il mondo degli investimenti identificherà rapidamente meccanismi paralleli per aggirare il problema.
Cina, la strategia
In parole povere, il piano d’azione della Cina è quello di diventare più ricca e riassumere il suo legittimo ruolo di “Regno di Mezzo”. Zhongnanhai, la sede della leadership del Partito Comunista Cinese, vuole dimostrare che il comunismo può effettivamente fornire la struttura per garantire un governo responsabile, ambiente pulito e ricchezza economica.
A ben vedere, il processo ristrutturazione dell’economia domestica cinese che prevede il passaggio dal settore manifatturiero a quello dei servizi, rende già ora i dazi statunitensi meno efficaci. Dal 2013, infatti, la crescita del PIL cinese è stata sempre più trainata dal settore dei servizi e dai consumi interni.
La strategia del Paese sarà quella di raddoppiare gli sforzi per lo sviluppo della Belt and Road Initiative (BRI) e di accelerare il reclutamento dei paesi beneficiari nella sua sfera di influenza. Ciò significa consolidare l’accesso a quei mercati, integrare le aziende cinesi in quelle economie, stabilire flussi di forniture a lungo termine di materie prime, risorse e prodotti agricoli, adottando al contempo misure per incoraggiare l’adozione degli standard tecnici e tecnologici cinesi. Data la scarsità di alternative, sarebbe logico presumere che la maggioranza dei paesi accetterà di aggregarsi all’iniziativa integrandosi nella sfera di influenza di Pechino.
Oltre a focalizzarsi sui paesi interessati dalla “Nuova via della seta”, la Cina è stata anche lo sponsor principale del Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), che è diventato “attivo” nel novembre 2020.
In termini commerciali e geopolitici, questa è la risposta della Cina alla Trans-Pacific Partnership (TPP). I membri sono 16: Australia, Brunei, Cambogia, Cina, India, Indonesia, Giappone, Laos, Malesia, Myanmar, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Corea del Sud, Thailandia e Vietnam. Insieme, rappresentano 25 trilioni di dollari di PIL. Questo gruppo godrà di una crescita continua dei volumi e del valore degli scambi, diventando sempre più allineato a Pechino in ambito geopolitico.
L’Unione Europea
Il piano d’azione dell’UE sembra essere quello di cercare di mantenere la propria posizione nel multilateralismo e nel libero scambio, sfruttando il suo ampio mercato interno e la combinazione delle sue possibilità diplomatiche e militari, rafforzando al contempo le sue difese contro la guerra cibernetica e l’acquisizione di proprietà intellettuali da parte cinese.
Il blocco del Vecchio continente probabilmente si schiererà dalla parte degli Stati Uniti, senza però essere disposto a farsi inglobare del tutto dagli americani, proteggendo gelosamente il suo diritto di stringere in maniera indipendente accordi con altri paesi del mondo.
Usa e Cina: i risvolti per gli investimenti
Il prossimo decennio vedrà dunque probabilmente un aumento dell’impegno per scindere le due maggiori economie del mondo. Gli investitori sono ben consapevoli della crescente pressione sui governi affinché scelgano da che lato schierarsi. Nei paesi in via di sviluppo, l’offerta cinese della BRI è già stata accettata.
Le uniche eventualità che potrebbero fermare questo processo sarebbero un’improvvisa e corrispondente generosità finanziaria da parte degli Stati Uniti, l’emergere di problemi di implementazione della BRI, o un passo falso politico scioccante da parte di Pechino. Tutto ciò al momento sembra essere piuttosto improbabile; dunque se la dissociazione tra USA e Cina dovesse continuare, sarebbero molti i paesi nella sfera di influenza cinese.
Gli investitori devono rimanere al passo con gli sviluppi e comprenderne le prospettive così da identificare le aziende particolarmente vulnerabili. Allo stesso tempo, dovrebbero pianificare un futuro in cui la propria collocazione geografica determinerò di fatto l’universo di investimento, come non avveniva ormai da molti decenni.