I listini della Cina continuano a rimanere del colore della bandiera del gigante asiatico, il rosso: venerdì 24 novembre l’Hang Seng ha chiuso a -1,96%, Shanghai ha ceduto lo 0,68% mentre il Nikkei è riuscito a riprendersi e ha guadagnato lo 0,52%. I dati macroeconomici in effetti non delineano un quadro così fosco – ad ottobre i dati su vendite al dettaglio, crescita della produzione industriale e PIL dei primi nove mesi del 2023 al 5,2% hanno sorpreso in positivo – ma è indubbio che l’economia del Dragone stia affrontando una fase di grande difficoltà, che porta alcuni osservatori a parlare dell’avvio di un’era della stagnazione.
Sullo sfondo non solo la quasi deflazione, ma anche il progetto del governo di Pechino di salvare il settore immobiliare, schiacciato dallo stress del debito, che richiama molto il “credito facile” della bolla immobiliare scoppiata con la crisi Lehman Brothers negli Stati Uniti. A riaccendere le preoccupazioni sulla crisi immobiliare cinese è arrivata in queste ore la notizia che il gruppo bancario cinese Zhongzhi Enterprise Group, uno dei principali gestori patrimoniali del Paese con una notevole esposizione in questo settore, ha dichiarato agli investitori di essere insolvente. Il peggioramento della situazione a Zhongzhi ha messo in luce anche i problemi di liquidità nel mercato cinese dei cosiddetti finanziamenti ombra, ottenuti da istituzioni finanziarie che operano al di fuori del sistema bancario tradizionale e controllato, che valgono quasi 3.000 miliardi di dollari.
E’ quindi più che giustificato lo scetticismo sul fatto che le varie misure di stimolo immobiliare da parte di Pechino, compresa la decisione di consentire alle banche di offrire prestiti a breve termine non garantiti alle società del settore, siano sufficienti per prevenire ulteriori default. Ad aggiungere ulteriore nervosismo di breve al mercato è anche l’attesa dei PMI cinesi relativi a ottobre in uscita la prossima settimana, dopo che le letture di settembre hanno indicato una contrazione del settore manifatturiero mentre l’attività dei servizi è rallentata.
Come se non bastasse, il litio ha prolungato una serie di cali durati quasi un mese, portando la flessione quest’anno al 75%, dal momento che un eccesso di offerta spinge i prezzi a scendere e le case automobilistiche stanno ripensando le loro strategie sui veicoli elettrici. I prezzi cinesi del carbonato di litio, una forma semilavorata del metallo, sono scesi del 20% finora a novembre e, l’ultima volta che hanno registrato un guadagno giornaliero, è stato il 25 ottobre. Una notizia tutt’altro che incoraggiante se si pensa che la Cina domina la manifattura e la filiera dei dispositivi agli ioni di litio. Nel dettaglio, Pechino fabbrica il 77% delle celle di batterie al mondo (l’intera Europa vale il 7%), e controlla da sola il 58% della raffinazione del litio, il 65% di quella di cobalto e il 35% di quella di nichel.
A rasserenare l’orizzonte dell’economia della Cina l’incontro, la scorsa settimana, tra il Presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping e il Presidente americano Joe Biden, che ha contribuito a distendere i rapporti tra le due potenze e a riaprire gli scambi di tecnologia strategica (aka, chip, know how e intelligenza artificiale).