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Come il principale finanziere di Renzi cambierebbe l’Italia

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LONDRA (WSI) – Sono andato a Londra a conoscere Davide Serra, il finanziere italiano amico e sostenitore di Matteo Renzi, un piccolo imprenditore della finanza e un investitore istituzionale molto rispettato nella City, ma descritto come l’uomo nero negli ambienti dell’establishment politico, giornalistico e culturale italiano, in particolare in quello vicino al mondo Pci-Pds-Ds e in una parte del Partito Democratico.

Serra mi ha ricevuto una mattina di fine novembre al terzo piano di una tradizionale palazzina con i mattoni rossi vicino a Savile Row, la strada delle sartorie su misura al centro di Londra. L’ufficio è grande e spazioso per i cinque o sei analisti incollati agli schermi del computer. Per terra c’è un parquet a lista lunga e le grandi finestre attraggono la luce di un insolito sole londinese. All’ingresso una pila di Financial Times ancora cellofanati. In un angolo un table football, un biliardino.

Ma la prima cosa che si nota entrando ad Algebris Investments, così si chiama la società fondata e gestita da Serra, è che alle pareti ci sono tre enormi fotografie di altrettanti premi Nobel, non per l’Economia, ma per la Pace. Sono Nelson Mandela, Aung San Suu Kyi, il Dalai Lama, fotografati dal tedesco Peter Badge. C’è una quarta immagine, che si intravede attraverso le pareti a vetro dell’ufficio personale di Serra, dove il titolare è impegnato in una discussione in francese. È una gigantografia di Jimmy Carter, altro Nobel per la Pace, scattata sempre da Badge. Non in primo piano come le altre, ma seduto su una sedia a dondolo. Jimmy Carter. Non è esattamente l’iconografia che mi sarei aspettato di trovare nell’ufficio di un finanziere accusato dagli avversari interni di Matteo Renzi di essere uno squalo residente alle Cayman. Sembra l’ufficio di Walter Veltroni, non di Gordon Gekko.

«Sono pacifista, pacifista convinto… per me la pace è tutto», mi dice Serra spiegandomi la provenienza delle foto. Sono state acquistate a un’asta benefica a Berlino, dove c’era anche Angela Merkel. Serra ha comprato i tre ritratti, ma avendo quattro figli ha chiesto al fotografo di vendergli anche una quarta foto di un Nobel per la Pace, e ha scelto l’ex presidente democratico americano sconfitto da Ronald Reagan. Serra mi fa accomodare nella sala riunioni adiacente al suo ufficio. Si toglie la giacca e posa lo smartphone sul tavolo (lo prenderà soltanto due volte per mandare un sms a un amico e per rispondere alla moglie su questioni di famiglia).

Davide Serra ha 42 anni, una moglie e quattro figli. Ha studiato alla Bocconi e vent’anni fa si è trasferito a Londra. Ha lavorato in varie banche d’affari ed è diventato una star delle analisi dei mercati globali a Morgan Stanley, è stato premiato come Young Global Leader dal World Economic Forum e nel 2006 ha fondato la sua boutique di asset management, Algebris Investments, un fondo che gestisce circa due miliardi di dollari e con il quale ha iniziato a farsi notare per le battaglie anche generazionali su Generali e per i super rendimenti che garantisce agli investitori, in particolare con il fondo CoCo, segnalato l’anno scorso dal Financial Times come uno dei più remunerativi sulla piazza londinese. Quando parla si sente che ragiona in inglese e che talvolta è costretto a tradurre nella sua lingua madre, un idioma che ormai parla solo con i figli e con i giornalisti come me. L’approccio è anglosassone: diretto, deciso, a tratti impudente. Appare sfacciato a un occhio italiano, e non c’è dubbio che sia radicale nelle proposte. Serra parla spesso dei suoi figli, ci tiene ai valori tradizionali della famiglia italiana, è cattolico, aiuta la chiesa italiana locale e dona 50mila sterline l’anno al Saint Peters Project, di cui è patron, che fornisce duemila pasti l’anno e assistenza agli italiani di Londra in difficoltà. L’unica cosa che ha in comune con Berlusconi è la capacità di fare soldi, ma precisa che lui opera in regime di concorrenza globale, mentre Berlusconi soltanto localmente e sempre protetto dalla politica.

Non sono andato a trovare Serra per parlare dei suoi affari, ma per farmi raccontare in modo ordinato che cosa propone realmente per il nostro Paese, vista la sua esposizione a favore di Renzi e l’influenza che può esercitare sul nuovo leader del centrosinistra. L’avevo ascoltato alla Leopolda, e mi avevano colpito molto le accuse feroci dell’ala ex comunista ed ex diessina di quello che in fondo è il suo stesso partito. Trovo meraviglioso che gli stessi fan della merchant bank che non parla inglese, quelli che davano di gomito ai capitani coraggiosi (coraggiosi, ma con gli asset pubblici) e si congratulavano con i banchieri in coda alle primarie Pd ora siano improvvisamente indignati per un quarantenne che fa sul serio il finanziere nella piazza più importante del mondo.

Insomma sono andato a Londra per sapere come Serra cambierebbe l’Italia, lui che sa fare di conto. Come la salverebbe. Serra è abituato a parlare con i dati, più che con le parole. Mi consegna 43 pagine di analisi numerica dei problemi del nostro Paese. «I fatti». Le slide, in parte riprodotte su queste pagine, sezionano il Paese e i suoi fondamentali come se fossero un’azienda o un’idea su cui decidere se investire o meno. È il metodo dell’analista finanziario: aritmetico, non politico. «Qui – dice mostrando le slide – ci sono la diagnosi, il tumore e la strategia di aggressione del cancro». Si può fare, aggiunge, «ce la possiamo fare, altrimenti non starei qui a parlarne, ma bisogna agire subito e in modo radicale».

La cosa che salta agli occhi, ancora una volta in netto contrasto con il ritratto che se ne fa sui giornali italiani, è che tra le più importanti misure proposte da Serra per salvare l’Italia c’è l’aumento delle tasse sulle rendite finanziarie, e non di poco, addirittura di dieci punti percentuali, dal 20 al 30 per cento. Una cosa di sinistra. Serra propone di trovare un punto di Pil, circa 10 miliardi di euro, dai profitti sulle attività finanziarie, cioè proprio sul suo business. Il Grande-Speculatore-delle-Cayman, insomma, vuole rendere meno favorevole la speculazione finanziaria, i guadagni netti dei suoi potenziali clienti. Il maggiore gettito per le casse dello Stato andrebbe a compensare, secondo Serra, una riduzione del 10 per cento delle tasse sulle imprese, per renderle competitive rispetto alle equivalenti europee, e delle imposte sui lavoratori. Il saldo degli aumenti e delle riduzioni non fa zero, per cui resterebbero da recuperare altri 10 o 15 miliardi di euro con precise misure anti evasione (che vedremo subito) e con la riduzione degli sprechi pubblici attraverso il metodo della Consip sui costi standard dell’amministrazione pubblica.

Ecco che cosa mi ha detto Serra, scorrendo i numeri che riproponiamo su queste pagine: «Va fatta la diagnosi e poi va studiata una terapia. Non serve l’ideologia, è sufficiente l’aritmetica. Dobbiamo trovare 50 miliardi di euro l’anno per dieci anni, come dice il Fiscal compact che abbiamo firmato. Del resto quando un’azienda è sovraindebitata, non devi far altro che aggiustare la struttura del debito. Sono dolori, ma l’alternativa è saltare in aria. Abbiamo il terzo debito del mondo, l’ottavo Pil che va verso il decimo, la terza disoccupazione giovanile e siamo 49esimi in competitività. Ogni anno perdiamo giri: o si prendono le decisioni o si salta. Il primo problema è il debito sbilanciato: troppo debito pubblico, poco privato e poco delle aziende. Questo blocca la crescita. Il settore pubblico è la metà del nostro Pil, e non è il miglior operatore, anche a causa della corruzione congenita del nostro sistema. Prendiamo i numeri: abbiamo 2.000 miliardi di debito e un prodotto interno lordo di 1.600 miliardi, 850 dei quali sono spesa pubblica: pensioni, sanità, spesa corrente e interessi sul debito. Lo spread va abbattuto perché non incide soltanto sui 80 miliardi di interessi che paghiamo sul debito, ma anche sul costo del denaro che le banche prestano ai privati e alle aziende. C’è una sola soluzione: tagliare la spesa pubblica e riqualificarla togliendo sprechi e allocando correttamente le risorse, anche per migliorare i servizi. Questa la madre di tutte le battaglie, difficile da combattere perché ci si scontra con interessi e lobby fortissimi.

C’è da recuperare denaro dall’evasione, una delle cause del debito, e c’è da semplificare il sistema tributario che è una cosa da pazzi. Quando in Inghilterra faccio la dichiarazione, il mese dopo mi dicono quanto gli devo, e non ci sono deducibilità. Semplice. Le deducibilità sono fatte per comprare voti. Ci vuole una semplificazione totale. C’è da migliorare anche il sistema giudiziario, sul modello di quanto hanno fatto a Torino, dove sono state eliminate le code negli uffici. Ci vogliono leggi anti corruzione severe: chi è stato condannato non può assumere incarichi pubblici né essere chiamato a servire nei board di società private.
Torniamo ai dati: abbiamo meno dipendenti pubblici dei nostri partner, ma li paghiamo di più, non nella parte bassa, ma in quella alta. Gli altri spendono il 13 per cento in meno rispetto a noi. L’impatto è devastante: uccidiamo la competitività, diventiamo deboli nei settori innovativi, ammazziamo le imprese e aumenta la corruzione. Ogni anno, a parità di conto economico, le aziende italiane perdono rispetto ai concorrenti europei il 15 per cento dei profitti a causa dello spread (assumendo che i ricavi siano gli stessi, ma non lo sono). Quindici per cento l’anno. Dopo due o tre anni, quando magari le aziende devono rinnovare i macchinari, non hanno i soldi e quindi sono costrette a chiudere o a vendere, e magari a investire il ricavato nella finanza e non nell’industria. Anche perché tassiamo pochissimo le rendite finanziarie e moltissimo i profitti industriali.

Siamo primi nell’economia sommersa: l’ultimo dato è del 21,5 per cento. Fino a qualche anno fa in Corea del Sud era al 20 per cento, ma il Fondo monetario ha imposto l’uso delle carte e in poco tempo l’evasione si è ridotta al 5 per cento. Da noi abolirei il contante e per i controlli farei incrociare le dichiarazioni dei redditi e il flusso di cassa a un operatore non italiano, a Google o al software usato dallo Stato francese. Altra cosa: i lavoratori autonomi sono il 32 per cento, ma valgono soltanto l’8 per cento delle entrate fiscali: 13 miliardi sui 165 del gettito da lavoro. I non dipendenti dovrebbero pagare una cinquantina di miliardi in più, una cifra intorno al 3 per cento del Pil. Senza questa evasione ventennale avremmo un rapporto debito-Pil del 60 per cento invece che del 130. E a noi basta arrivare al 100. L’obiettivo dei prossimi dieci anni è ridurre di 600 miliardi il debito pubblico. È la missione della nostra generazione. È il regalo che ci hanno lasciato: 1.600 di Pil, ma 600 sono da ripagare.

Va dunque tagliata la spesa del 20 per cento, per un risparmio pari al 2 per cento del Pil. Come si fa? Tagliando i costi della politica, intanto: via il Senato, via le Province. E tutto il resto a costo standard, come prova a fare la Consip: cioè si prende l’esempio più virtuoso della Pubblica amministrazione ed entro tre anni tutti si devono adeguare. Nessuna scusa. Le pensioni, poi. C’è una profonda ingiustizia tra chi è andato in pensione col sistema retributivo e chi ci andrà col contributivo. Nella gran parte dei casi i primi prendono più soldi di quanti ne hanno versati. Va fatta una revisione caso per caso o categoria per categoria, applicando a tutti lo standard contributivo.

Se c’è chi prende 20 o 30 per cento in più di quanto ha contribuito magari glielo si lascia, così come a chi sta sotto certe fasce, ma se c’è chi prende una pensione superiore di 3 o 4 volte rispetto a quello che ha versato, be’, mi dispiace, si applica il contributivo. Che questa cosa non sia discussa è incredibile. Sono certo che ci sarà anche chi ha versato di più con il retributivo, ma questo dimostra l’illogicità del sistema. Nel 1983 si andava in pensione, in media, a 55 anni. Nel 2050 si andrà in pensione 15 anni dopo e si prenderà il 20 per cento in meno. Questo è un furto intergenerazionale, non diritti acquisiti. Vanno anche ceduti immobili per 70-80 miliardi e partecipazioni per 40 miliardi.

Ricapitoliamo: 3 o 4 punti di Pil dall’evasione, altri 2 punti dal costo eccessivo della spesa pubblica, poi 4 punti e mezzo dalle pensioni. Abbiamo 10 punti di Pil ingiustificato aggredibile, il Fiscal compact ce ne impone due, due all’anno, in modo strutturale. Non è una missione impossibile. È realizzabile, matematicamente».

Serra mi porta al quinto piano della palazzina. L’ascensore si apre sugli uffici di The Children’s Investment Fund Foundation, una delle più importanti fondazioni inglesi di beneficenza per bambini, di proprietà di Chris Hohn, finanziere e filantropo. La Children Foundation è tra i soci iniziali di Algebris e, sempre per spiazzare il ritratto da avvoltoi della finanza che se ne fa sui giornali italiani, detiene il 22 per cento della società di Serra. Anche Serra, assieme alla moglie Anna, ha una sua charity, una fondazione benefica. Si chiama Hakuna Matata, «non ci sono problemi» in swahili (è una canzone del Re Leone), e aiuta quasi 5.000 bambini orfani in Tanzania. «Ho quattro figli – dice Serra che, quest’anno, raddoppia tutte le offerte ricevute dalla charity – e ho deciso di prendermi cura di un migliaio di bambini per ciascuno dei miei figli».

La Tanzania è molto lontana dalle Cayman e Serra non si capacita del fatto che i suoi accusatori non sappiano che avere attività finanziarie alle Cayman non significa eludere le tasse (che lui paga interamente in Gran Bretagna), ma solo maggiore libertà operativa sui mercati e nel pieno rispetto del diritto internazionale. Quando gli segnalo l’ennesima bordata di Gianni Cuperlo, che proprio quella mattina è tornato a criticare Renzi per aver invitato alla Leopolda il finanziere londinese invece che un pensionato del Sulcis, Davide Serra replica: «Questo commento dà l’idea di quanto capisca di mondo reale uno come Cuperlo. Il Sulcis è stato un bagno di sangue per i contribuenti. Se avessero regalato i soldi alle famiglie senza far lavorare nessuno – conclude – lo Stato avrebbe perso meno denaro».

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