Il tentativo di contenere la crescita dei salari è stato uno degli aspetti più dibattuti della politica economica italiana negli scorsi anni. Per capire meglio se e in che misura essa si sia verificata è stata pubblicata una nuova analisi a cura della Fondazione Di Vittorio, ossia l’Istituto nazionale della Cgil per la ricerca storica, economica e sociale.
Ignorando un po’ l’elefante nella stanza, ovvero, il rapporto tra produttività e salari che l’economia mainstream mette al centro dell’attenzione quando si trattano questi temi, la Fdv sottolinea come la “stagnazione salariale” italiana sia un fenomeno “di lungo periodo” e “che vede il salario lordo medio a livelli ben inferiori rispetto alla media degli altri Paesi e di poco superiore solo a quello spagnolo”.
Nel grafico in basso è possibile osservare il salario lordo per i lavoratori dipendenti full time, fra 2000 e 2019. Spagna e Italia sono, in effetti, gli unici Paesi, fra quelli esaminati, a non aver incrementato in modo netto i propri i livelli salariali dal 2000 a oggi. Rispetto ai livelli del 2008, tuttavia, se una compressione salariale c’è stata, è stata nettamente più forte in Spagna, rispetto all’Italia.
La compressione salariale spagnola appare ancor più evidente nel successivo grafico, che rappresenta l’evoluzione della Quota salari. Questa percentuale rappresenta l’incidenza che i salari hanno sul totale del Pil: quest’ultimo, infatti, può salire anche quando i salari ristagnano, e in questo caso si osserverà una riduzione della Quota salari. Esattamente come avvenuto in Spagna dal 2009 a oggi. L’Italia, invece, ha seguito un percorso un po’ diverso. Nonostante i salari dei lavoratori dipendenti a tempo pieno siano stati più o meno costanti, la quota salari è oggi più elevata rispetto a vent’anni fa. Proprio come in Germania e in Francia, anche se in questi ultimi due casi, i salari sono saliti.
Un ultimo grafico tratto dall’analisi della Fondazione Di Vittorio mette in luce come i salari italiani e spagnoli, fra i più bassi se si considerano i Paesi Ue più avanzati, si associno a un numero di ore lavorate molto superiore alle controparti tedesche o francesi. Si lavora di più, dunque, ma si è pagati di meno, proprio perché la tecnologia e la produttività consentono al lavoratore della Germania di avere un miglior rapporto tra ore lavorate e prodotto.
Secondo la Fdv la politica di moderazione salariale (di cui il Jobs Act fu il tentativo più noto) non sarebbe una strategia vincente per migliorare il rapporto fra costo del lavoro e prodotto:
“[La moderazione salariale] ha aggravato il declino economico italiano e aumentato le nostre divergenze con il resto delle maggiori economie dell’Eurozona perché in un quadro di consolidamento fiscale – caratterizzato da tagli alla spesa pubblica e da un aumento della tassazione verso i redditi più bassi – e con una struttura produttiva composta prevalentemente da micro e piccole imprese, la moderazione salariale ha disincentivato gli investimenti privati e ha contribuito a peggiorare le aspettative delle imprese stesse”, in quanto avrebbe contribuito a ridurre la domanda aggregata, conclude l’analisi.
D’altro canto, si può notare come la compressione salariale in Italia sia stata modesta rispetto a quella adottata dalla Spagna, anche se è da verificare quanto essa abbia contribuito alla robusta ripresa iberica degli ultimi anni.