Milano – Un incontro a Berna, un secondo a Roma. Tutti contraddistinti dalla massima riservatezza, tutti con un obiettivo preciso: arrivare a novembre, al più tardi nei primi mesi del 2013, a concludere l’accordo di collaborazione fiscale tra Italia e Svizzera che consentirà di tassare i risparmi depositati sui conti di Lugano e Zurigo e fino a oggi sfuggiti al fisco di casa nostra. La trattativa, a cui ha imposto un cambio di passo il vertice avvenuto la scorsa primavera tra Mario Monti e la presidente elvetica Eveline Wiedmer – Schlumpf nelle ultime settimane ha conosciuto una nuova accelerazione testimoniata non solo dagli incontri informali tra gli «sherpa» di entrambi i paesi ma anche da un dato oggettivo: il 27 e 28 agosto prossimi la commissione esteri del parlamento di Berna discuterà quale mandato consegnare al governo per la trattativa. In pratica fissati i «paletti» negoziabili con l’Italia verrà stilato l’elenco delle richieste da presentare alla controparte in cambio della sospirata tassazione.
Entrambi gli Stati vedono in gioco interessi molto concreti: il fisco italiano riuscirebbe per la prima volta a mettere le mani sul «tesoretto» esportato in Svizzera (la stima prudenziale è di 160 miliardi di euro, la Finanza di Como ne ha intercettati alla dogana di Chiasso altri 40 milioni dall’inizio dell’anno, a testimonianza di un flusso che non conosce cali); dal canto suo la Svizzera, pressata dalla comunità internazionale che ha dichiarato guerra ai paradisi fiscali, è disposta a tassare i risparmi dei cittadini esteri in cambio del mantenimento dell’anonimato sui titolari dei conti, essenza stessa del segreto bancario elvetico.
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Il criterio ha già fatto da bussola nel negoziato che Berna ha condotto in porto con Gran Bretagna, Germania e Austria. Queste bozze prevedono prima di tutto un prelievo di almeno il 25% sul capitale a mo’ di condono per il passato; in più viene applicata un’aliquota sugli interessi maturati ogni anno in base a due criteri: l’ammontare del conto e la sua «anzianità». Più oneroso per gli svizzeri è stato invece l’accordo siglato con gli Stati Uniti: l’amministrazione Obama che fa della lotta all’evasione fiscale uno dei cavalli di battaglia della prossima campagna per la Casa Bianca, minacciava di sanzionare l’attività delle banche elvetiche negli Usa se non ci fosse stata collaborazione nello scambio di informazioni sui conti off shore.
Tornando al dialogo con l’Italia, l’argomento è stato al centro di diversi incontri tra rappresentanze dei due paesi che si stanno susseguendo in questi mesi. Fonti informali del ministero dell’Economia fanno sapere da Roma che il confronto deve ancora affrontare nodi cruciali, che l’ipotesi più realistica è la sigla di un patto tra i governi (poi destinato a un passaggio parlamentare) all’inizio del 2013, e che infine l’Italia incasserebbe i primi soldi sui capitali esteri tassati, nel 2014. «Stringere i tempi è fondamentale – fa sapere dal canto suo l’europarlamentare italiana del Pdl Lara Comi – perché occorre impedire che i capitali esportati si spostino dalla Svizzera verso altri lidi».
«Da parte nostra c’è la massima disponibilità – fa eco Ignazio Cassis, parlamentare elvetico che con la Comi aveva riaperto la strada del dialogo italo-svizzero poco più di un anno fa – e di ostacoli particolari non ne vedo: il modello giuridico a cui fare riferimento è quello già stabilito con Germania e Gran Bretagna. Tocca all’Italia, in pratica, dirci cosa vuole fare».
Per la verità anche la Svizzera mantiene qualche riserva: innanzitutto l’accordo con Berlino rischia di dover essere sottoposto a un referendum popolare (la raccolta di firme è già cominciata) e poi ci sono alcuni punti che riguardano nello specifico i rapporti con l’Italia che al di là del confine ritengono essenziali. «In cambio della tassazione sui conti degli italiani – mette in chiaro Pierre Rusconi, rappresentante dell’Udc elvetico, partito conservatore molto intransigente in materia di dialogo con Roma – chiediamo che la Svizzera venga depennata da ogni black list italiana: le aziende e le banche elvetiche sono ancora oggi sottoposte ad assurde discriminazioni se vogliono lavorare in Italia, non si può sospettare dietro ogni attività lecita un tentativo di riciclaggio».
L’impressione è insomma che la Confederazione voglia includere nel «pacchetto» della trattativa tutti gli argomenti che fino al 2011 avevano a dir poco raffreddato e reso difficili i rapporti tra i due stati confinanti: ecco dunque far capolino l’invasione di lavoratori italiani in Canton Ticino, che rappresentano ormai il 25% della forza lavoro della regione, ecco messa sul tavolo la quota di gettito fiscale prelevata dalle buste paga di questi ultimi (38%) che Berna è costretta a girare a Roma in base a un accordo del 1974. Ma Rusconi pone anche un’altra questione, più squisitamente politica: «Oggi trattiamo con il governo Monti ma che garanzie abbiamo sul domani? Chi ne raccoglierà l’eredità e soprattutto cosa accadrebbe se dall’altra parte del tavolo dovessimo trovarci Beppe Grillo?». Una ragione in più, almeno da parte elvetica, per accelerare i tempi dell’accordo.
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