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CONSOB: IL TESTO INTEGRALE DELL’INTERVENTO

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INCONTRO ANNUALE CON IL MERCATO FINANZIARIO

Signor Ministro dell’Economia e delle Finanze, Autorità, Signore e Signori,

La Commissione è grata al Presidente e agli amministratori di Borsa Italiana per l’ospitalità offerta alla Consob in questa bellissima sala di palazzo Mezzanotte. Fu, questo, il luogo della contrattazione alle grida, abbandonata quando la Borsa di Milano, fra le prime al mondo, introdusse la contrattazione telematica. Ora che il sussurro dei mezzi elettronici ha fatto tacere le grida, possa questa sala, splendidamente rinnovata, servire come sede di argomentazione e di ragionamento.

Nel giugno scorso il dottor Salvatore Bragantini si è dimesso da commissario per tornare a una vita di mercati e di finanza. Gli esprimo la gratitudine dell’Istituto e quella mia personale per il contributo appassionato di competenza e di idee che egli ha offerto alla Commissione. Il dottor Enrico Cervone, nominato commissario, apporta alla Consob una ricca dote di esperienza. Il consigliere Renato Rordorf tornerà nei ruoli della magistratura. La Consob gli deve molto. Il suo rigore intellettuale e la sua scienza giuridica, capace di calarsi nella realtà, sono stati di ausilio prezioso alla Commissione. È stata chiamata a sostituirlo la professoressa Carla Rabitti Bedogni, a cui esprimo un caldo augurio di buon lavoro. È motivo di compiacimento per l’Istituto e per i suoi colleghi della Commissione che il consigliere Lamberto Cardia resti per un secondo mandato a prestare la sua opera.

Dal 1° maggio scorso la sede romana della Consob si è trasferita in un nuovo edificio, in cui finalmente trovano posto tutti i dipendenti. Dopo gara comunitaria, sono iniziati i lavori di restauro di Palazzo Carmagnola, concesso dal Comune di Milano per la sede della Consob in questa città.

Il sistema finanziario internazionale: forza e problemi

1. Sul finire dello scorso anno, quando si era già sgonfiata la bolla speculativa sui titoli della nuova economia e delle telecomunicazioni, la finanza globale è stata colpita in breve successione di tempo da tre scosse di grande portata: l’impatto degli attentati dell’11 settembre; la crisi argentina; la bancarotta di una delle più grandi società americane, sino ad allora portata ad esempio del dinamismo della corporate America.

In passato una sola di queste scosse avrebbe prodotto conseguenze destabilizzanti gravi e diffuse: ricordiamo quelle, più remote, della chiusura di una media banca tedesca e quelle, più recenti, della crisi messicana e del collasso di un grande hedge fund.

Oggi il sistema ne ha assorbite tre senza che si manifestassero gravi problemi, dando così prova di una solidità e di una flessibilità di reazione forse inattese, certo rimarchevoli. Il crollo delle torri non ha travolto il sistema dei pagamenti; il maggior episodio di insolvenza di un debitore sovrano mai verificatosi non ha avuto effetti sistemici; il fallimento della Enron, accompagnato e seguito da vicende analoghe di altre società, non ha sconvolto il mercato azionario ed è stato sopportato dai creditori.

Molti fattori hanno contribuito a questa maggiore capacità di resistenza. Gli investimenti informatici attuati nel timore, forse eccessivo, delle conseguenze del cambio di millennio sono tornati utili all’indomani dell’11 settembre.

L’insolvenza argentina era un evento atteso, contro il quale gli operatori maggiori si erano almeno in parte protetti. L’innovazione finanziaria e in particolare i nuovi strumenti di cartolarizzazione hanno consentito una migliore assicurazione e soprattutto una maggiore diffusione dei rischi. Dopo un decennio di alti profitti, gli intermediari erano in ottima salute, con una capitalizzazione non solo adeguata, ma elevata. La politica monetaria si è attivata prontamente per impedire crisi sistemiche.

L’apprezzamento per la solidità e per la flessibilità di reazione mostrate dal sistema finanziario non può tuttavia generare una panglossiana compiacenza sullo stato del mondo. Si manifestano punti di vulnerabilità. Ai regolatori si è palesata l’esistenza di notevoli problemi.

2. Pur se i mercati hanno saputo digerire le conseguenze finanziarie immediate della crisi argentina, il possibile collasso dell’intero sistema bancario del paese e la riduzione degli investimenti esteri diretti in tutta l’America Latina e degli investimenti bancari nei paesi in via di sviluppo potrebbero produrre effetti più diffusi. Problemi comunque più gravi si manifesterebbero se il decadimento della situazione economica e lo scadimento della situazione finanziaria del Giappone, che durano ormai da un decennio, degenerassero in una situazione di crisi.

La correzione dei corsi azionari ha mitigato i precedenti eccessi di valutazione. La sostenibilità dei valori attuali dipende dalla qualità e dalla forza della ripresa, i cui effetti per i profitti e gli investimenti sono ancora incerti. È comunque difficile prevedere il ritorno a una tendenza simile a quella che aveva viziato i mercati sino a un paio di anni fa. Restano problemi settoriali irrisolti.

Nelle telecomunicazioni il processo di selezione e di ristrutturazione delle imprese non si è ancora esaurito: pur se l’esposizione delle banche appare sostenibile, non sembra che i conti siano ancora sistemati. Non si conoscono ancora con sufficiente precisione le conseguenze di più lungo periodo degli accadimenti recenti sul settore assicurativo.

3. L’11 settembre ha posto nella sua crudezza la questione del finanziamento del terrorismo internazionale e, più in generale, delle attività illecite. Ci si è accorti, finalmente, che molti centri off shore, prima benevolmente tollerati come utile strumento di concorrenza fra sistemi tributari, servono a offrire rifugi sicuri, al riparo dalle indagini giudiziarie e da quelle delle autorità di regolazione.

Sembra manifestarsi oggi in sede internazionale una volontà politica di esercitare adeguate pressioni affinché quei centri si aprano alle richieste di cooperazione. L’organizzazione internazionale dei regolatori dei mercati (Iosco) sta elaborando il testo di un memorandum multilaterale di intesa per verificare quali autorità nazionali siano realmente in condizione di rispettare i previsti obblighi di assistenza reciproca; una censura sarebbe inflitta ai firmatari che risultassero, successivamente, inadempienti.

Ne potrebbero derivare problemi alla Consob, a cui il Testo unico affida poteri di indagine limitati, e comunque inferiori a quelli attribuiti ad altre autorità estere, anche europee. Le indagini sul finanziamento delle attività terroristiche hanno messo in luce altri due problemi: l’inadeguatezza della definizione normativa di abusi di mercato e la difficoltà di identificare i beneficiari finali delle transazioni su strumenti finanziari. Al primo ha cercato di far fronte la nuova direttiva europea.

L’altro, più complicato, non può essere risolto con iniziative isolate a livello nazionale, che potrebbero compromettere la competitività degli intermediari nel paese che le assume: qualsiasi soluzione efficace deve essere concordata e attuata da tutti i paesi. Il caso Enron ha posto ai regolatori questioni più gravi e di più diretto interesse.

Enron e dintorni

4. In persistente elusione e in grave violazione delle regole contabili americane, dettagliate negli US Generally Accepted Accounting Principles (USGAAPS), gli amministratori della Enron sono riusciti per lungo tempo a offrire una rappresentazione del tutto infedele della situazione della società.

Una vasta costellazione di soggetti giuridici autonomi (special purpose entities), creati con l’ausilio di importanti banche d’affari e partecipati sino al 97 per cento ma non consolidati in bilancio, consentiva di simulare profitti e celare perdite della casa madre. Altre dubbie pratiche contabili, come il marking to market di ricavi ipotetici per la prestazione di servizi futuri, servivano allo stesso fine. Episodi non dissimili avvenivano in almeno un’altra importante società, che ha fatto la fine della Enron.

Le istituzioni finanziarie hanno offerto gli strumenti per costruire questi castelli di carta. I revisori contabili non hanno visto, e se hanno visto non hanno segnalato, la arbitrarietà di una contabilità fraudolenta o colpevole. I controlli interni non hanno funzionato. Gli amministratori indipendenti membri dell’audit committee non hanno svolto le funzioni ad essi demandate. Le dosi massicce di stock options di cui i manager della Enron si erano gratificati hanno indotto a simulare profitti che gonfiassero le quotazioni di borsa a cui poter rivendere le azioni al momento opportuno: appena prima della crisi, della cui imminenza essi erano consapevoli, in patente abuso di informazione privilegiata.

5. Sarebbe riduttivo trattare la vicenda Enron e altre simili come casi patologici eccezionali, imputabili esclusivamente a comportamenti inconsueti per dolo o per colpe gravi. Quelle vicende hanno svelato criticità intrinseche nella qualità dell’informazione, del governo societario e dei controlli: ne discendono conseguenze e insegnamenti che non riguardano solo gli Stati Uniti.

Una prima riflessione riguarda i sistemi contabili. Come ci si accorge oggi, la comprensività, l’ambizione di completezza, il tentativo di stabilire regole per ogni fattispecie concepibile, che erano i pregi di cui si vantava il sistema contabile americano, possono offrire il destro a pratiche elusive. Per quanto pletorico sia il corpo delle regole e quello degli USGAAPS lo è in massimo grado se esso non potrà mai includere tutti i casi possibili, né mai riuscirà a tener dietro a quelli nuovi, prodotti dall’innovazione finanziaria: il dettaglio apre spazi a comportamenti che, rispettosi della forma, sono elusivi della sostanza.

Al tentativo, vano, di costruire una mappa di scala uno a uno sembra dunque preferibile la definizione di principi più generali: è, questa, l’impostazione degli International Accounting Standards (IAS), a cui si conformeranno entro pochi anni tutti i paesi dell’Unione Europea, ma al cui riconoscimento gli Stati Uniti riluttano.

Nel particolare, si può notare che la proliferazione di entità costituite per iefini specialile fuori del bilancio non sarebbe stata possibile in Europa, ove la VII Direttiva impone, con poche eccezioni, il consolidamento di tutte le società controllate di diritto o di fatto. Una seconda riflessione riguarda i limiti dell’autoregolamentazione. Negli Stati Uniti il controllo di qualità della revisione contabile è sinora avvenuto con procedure di peer reviews all’interno della professione, e senza interventi diretti della Securities and Exchange Commission.

Queste procedure si sono palesemente rivelate inefficaci: da quando furono istituite, nel 1977, mai è stato emesso un giudizio negativo a carico di una grande società di revisione. È stato necessario il caso Enron per superare le resistenze politiche all’introduzione di un controllo con connotati pubblicistici. Il problema della revisione contabile è parte di una questione più generale. Come è noto da sempre, esistono potenziali divergenze di interessi fra il gestore della società (si tratti di un puro manager o di un azionista di controllo) e gli azionisti di minoranza, i quali soffrono di una endemica inferiorità informativa e decisionale.

Le tutele legali, le regole di corporate governance, di informazione e di trasparenza, il monitoraggio ambientale servono a ridurre quella inferiorità. La loro efficacia poggia su sistemi interni di controllo e di incentivi che rendano più compatibili gli interessi del gestore con quelli degli azionisti. Il sistema di tutele e di regole costruito negli Stati Uniti è celebrato per la sua eccellenza.

In effetti, i rimedi legali a disposizione degli azionisti di minoranza contro le avvenute malefatte dei gestori sono particolarmente forti; la bassa concentrazione della proprietà azionaria stimola l’attivismo degli investitori; le corti sono severe e pronte nel sanzionare le violazioni dei doveri fiduciari. Le regole di informazione e di trasparenza, siano esse dettate dall’autorità o dai mercati, sono particolarmente stringenti. Eppure questo sistema non è stato in grado di impedire che si verificassero il caso Enron e altri analoghi. A ben vedere, il fallimento si è manifestato nella struttura di incentivi sottostante alle regole.

I soggetti chiamati a garantirne il rispetto, anziché contrapporsi ed esprimere la necessaria dialettica nei confronti del management e a protezione degli azionisti, hanno agito in funzione di interessi propri, sovente in collusione con quelli del gestore e, proprio per ciò, in conflitto con le funzioni che essi avrebbero dovuto esercitare.

L’acquiescenza dei revisori, l’inerzia dei controlli interni, il pervicace ottimismo degli analisti trovano spesso spiegazioni semplici, e non commendevoli: in lucrosi incarichi di consulenza; nella acquiescenza degli amministratori indipendenti al management, da cui dipende la loro riconferma; nelle cospicue interessenze d’affari delle banche d’investimento che pubblicano i consigli per gli acquisti (e solo raramente quelli per le vendite).

Lo stesso uso (e abuso) delle stock options, invece di offrire incentivo al management ad allineare i propri interessi con quelli degli azionisti, ha prodotto l’effetto perverso di indurre a nascondere la vera situazione della società onde mantenere elevato il valore delle azioni prima del realizzo.

In definitiva, come ha detto il presidente della Sec in una sua recente deposizione al Congresso degli Stati Uniti, nella temperie di iicultura della speculazionelJ degli ultimi anni inl’imperativo morale di quanti avrebbero dovuto assicurare i controlli e l’equilibrio delle funzioni si è eroso e deve essere restauratol.

6. Non vi è bisogno di invocare Bertold Brecht per dubitare che basti affidarsi a un ritorno all’ imperativo morale per riparare i danni che il gioco di tanti e così corposi interessi ha prodotto al sistema di corporate governance. Infatti, negli Stati Uniti il Congresso e, con più incisività, la Securities and Exchange Commission hanno prontamente messo mano a una riforma delle regole, per renderle più cogenti e più stringenti.

Gli interventi della Sec, che saranno rapidamente attuati in via regolamentare, riguardano la qualità e la tempestività dell’informazione finanziaria periodica e continua, con particolare riferimento alle pratiche contabili, alle appostazioni fuori bilancio, alle transazioni con parti correlate, all’insider dealing degli amministratori; le regole contabili, con il passaggio dalle prescrizioni di dettaglio a un’impostazione per principi; i controlli sulle società di revisione, sottratti all’autoregolamentazione della professione e affidati a un’entità indipendente sotto la supervisione della Sec; le responsabilità degli amministratori.

La Sec ha poi chiesto al Congresso interventi legislativi per aumentare i propri poteri di controllo e di sanzione, per subordinare i piani di stock option all’approvazione degli azionisti, per far sì che il sistema del contenzioso giudiziario serva effettivamente, come si esprime il presidente della Sec , iead aiutare gli investitori, e non i loro avvocatilr. Il caso Enron ha certamente svelato l’esistenza di gravi e inattese manchevolezze nel sistema americano di protezione dell’investitore; si constata tuttavia che la reazione delle autorità, per correggerne i difetti, è stata rapida e incisiva. I problemi venuti alla luce riguardano comunque tutti gli assetti di corporate governance, e non solo quello degli Stati Uniti. In questa consapevolezza, la Iosco, l’organizzazione internazionale dei regolatori, ha istituito un comitato dei presidenti di alcune commissioni, fra cui la Consob, per valutare le conseguenze che si devono trarre da quanto è avvenuto.

In Italia, il Ministero dell’economia ha opportunamente istituito una commissione di studio per esaminare le implicazioni che possano interessare la legislazione e la regolazione nel nostro paese.

Assetti proprietari e di controllo

7. I problemi di corporate governance e di protezione degli azionisti di minoranza assumono connotazioni in parte diverse in relazione agli assetti proprietari e di controllo delle imprese quotate. In Italia, come è noto, la concentrazione proprietaria è elevata: ridottasi con le privatizzazioni, è tornata ai livelli precedenti.

Nel 60 per cento delle società quotate in borsa un socio ha la maggioranza assoluta; nella media ponderata, la quota del primo azionista è risalita a oltre il 42 per cento; il flottante è diminuito. La presenza di un azionista forte, in alternativa al modello anglosassone di proprietà diffusa, non rappresenta di per sé un connotato negativo: pregi e difetti dei due sistemi sono in qualche modo speculari.

Un azionista di maggioranza garantisce un più efficace controllo sulla gestione dell’impresa, ai cui risultati è direttamente interessato; d’altra parte ha maggiori opportunità di appropriarsi, a danno degli altri azionisti, di quelli che vengono definiti benefici privati del controllo. Questo trade-off fra incentivo al controllo sulla gestione e possibilità di appropriazione migliora quando la discrezionalità di gestione del socio maggioritario sia limitata dalla presenza di altri azionisti con quote minori ma con peso sufficiente a impedire comportamenti pregiudizievoli degli interessi della società.

Peggiora invece quando, e quanto più, si realizzi una separazione della proprietà dal controllo; quando, e quanto più, i diritti di controllo eccedano i diritti di proprietà, permane l’opportunità di estrarre benefici privati dalla società, mentre si riduce l’incentivo a impegnarsi nella gestione nell’interesse di tutti i soci.

8. In Italia la leva fra controllo e proprietà è particolarmente elevata. Il rapporto fra diritti di controllo e diritti ai dividendi, dopo essersi ridotto nel passato decennio, è tornato ad aumentare: nella media dei primi dieci gruppi quotati il capitale controllato è pari a quasi due volte e mezza il capitale posseduto. L’esercizio del controllo con un impegno più modesto nella proprietà viene sovente ottenuto ricorrendo a lunghe e complicate strutture piramidali.

Il mercato sanziona l’inefficienza di questi assetti con un forte sconto della quotazione della holding rispetto alle quotazioni delle partecipate in portafoglio: secondo una stima della Consob, alla fine del 2000 lo sconto era di circa il 20 per cento.

In Italia l’assenteismo in assemblea degli azionisti minori e l’inerzia di quanti fra essi detengono quote rilevanti del capitale abbassa il livello di impegno proprietario sufficiente per esercitare il controllo. Uno studio recente di 122 assemblee ordinarie di società quotate nell’anno 2000 mostra che, in media, oltre l’85 per cento del capitale rappresentato in assemblea è riferibile agli azionisti di controllo e circa il 7 per cento ad azionisti minoritari con quote superiori al 2 per cento.

La partecipazione dei piccoli azionisti e degli investitori istituzionali è meno che modesta: poco più del 6 per cento del capitale presente, con un tasso di assenteismo prossimo al 90 per cento rispetto al capitale posseduto. Tassi di partecipazione appena superiori si rinvengono nei dati delle assemblee di alcune grandi società nel 2001.

Questa realtà assembleare italiana è rilevante ai fini del raggiungimento di un controllo di fatto, che l’art. 2359 del codice civile individua nella disponibilità iidi voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinarialb di una società. Certamente tale controllo non si configura quando, accanto all’azionista di maggioranza relativa, vi siano altri soci minoritari forti e attivi nelle assemblee, i quali congiuntamente dispongano di una quota maggiore di voti. Nel caso di azionariato frazionato, invece, il modestissimo tasso di partecipazione delle minoranze consente al primo azionista l’esercizio del controllo anche con una quota di capitale lontana dalla maggioranza assoluta.

9. L’inerzia degli azionisti minoritari con quote rilevanti non ha certo incoraggiato la partecipazione alla vita societaria di quelli più piccoli. In Italia la quota del secondo azionista nelle società controllate, dell’8 per cento in media, è relativamente elevata, con notevole presenza di istituzioni finanziarie e di investitori istituzionali: tuttavia non si rilevano manifestazioni evidenti di attivismo e di monitoring sull’operato del controllante.

In effetti, le partecipazioni delle istituzioni finanziarie sono spesso assunte con il fine implicito o esplicito di sostegno dell’azionista più forte. Gli investitori istituzionali, forse perché quasi tutti di matrice bancaria, sono stati quasi sempre silenti nelle assemblee e inerti nella partecipazione alla vita societaria; oggi si manifestano tuttavia segni di mutamento, che devono essere apprezzati e incoraggiati anche, come dirò, con qualche opportuno mutamento delle regole.

In Italia, in definitiva, l’assetto della proprietà e del controllo e il comportamento dei soci minoritari forti hanno reso sinora obiettivamente più difficile una soluzione soddisfacente dei problemi di corporate governance e di protezione degli azionisti.

I diritti degli azionisti

10. Entro questi limiti, si deve riconoscere che la qualità della protezione degli azionisti di minoranza è notevolmente migliorata grazie alle innovazioni introdotte con il Testo unico del 1998. Prima di allora, un diffuso (anche se assai discutibile) indice di protezione legale dell’investitore assegnava all’Italia la non lusinghiera votazione di uno su sei.

La riduzione dei quorum per la convocazione dell’assemblea, per la denuncia al collegio sindacale e al tribunale, per l’esercizio dell’azione di responsabilità; l’aumento del quorum deliberativo per le assemblee straordinarie; la previsione di elezione di almeno un sindaco da parte delle minoranze; la possibilità di sollecitazione e raccolta di deleghe di voto hanno innalzato il valore del nostro indice al più soddisfacente livello di cinque.

Si osserva che i mezzi offerti agli azionisti per far sentire con maggior vigore la loro voce sono stati poco o punto esercitati: solo una volta le minoranze si sono attivate per convocare l’assemblea; non si è mai fatto ricorso ai poteri di denuncia e all’azione di responsabilità; mai è stata effettuata una sollecitazione di deleghe. Sarebbe tuttavia imprudente e pericoloso trarre da questa constatazione un giudizio sommariamente negativo sui nuovi istituti. Ovunque le soluzioni giudiziarie rappresentano un rimedio estremo.

Gli strumenti di difesa legale offerti agli azionisti sono tuttavia necessari quanto meno in prevenzione, poiché possono porre un vincolo ex ante all’operato degli amministratori. Si deve tuttavia riconoscere che nel nostro paese il costo di quei rimedi è particolarmente elevato, soprattutto a motivo dei tempi occorrenti per la soluzione delle controversie in giudizio. L’assetto della proprietà e del controllo e l’inerzia dei soci minoritari con quote rilevanti esaltano inoltre quello che in letteratura viene definito un problema di azione collettiva (che nessuno intraprende, affidandosi all’iniziativa altrui).

11. Le stesse caratteristiche riducono anche l’efficacia dei rimedi assembleari. Vi sono tuttavia segni recenti di maggiore attivismo da parte degli investitori istituzionali. Il protocollo di autonomia promosso da Assogestioni stabilisce principi importanti di indipendenza delle società di gestione; si fanno più frequenti le espressioni di voce dell’associazione rivolte agli emittenti, al mercato, alla Consob.

Queste iniziative potrebbero essere rafforzate con la formulazione da parte dei gestori di criteri generali per l’esercizio del diritto di voto e delle altre facoltà pertinenti alle azioni in portafoglio e con la pubblicità dei comportamenti tenuti nelle assemblee. Tocca invece al legislatore rafforzare le possibilità di intervento degli azionisti con opportune correzioni delle norme vigenti. Oggi, le procedure di raccolta delle deleghe sono troppo macchinose; venuta meno la materialità dei certificati azionari, i requisiti per la partecipazione alle assemblee sono inutilmente onerosi, soprattutto per gli investitori istituzionali, costretti a immobilizzare le proprie azioni per un periodo troppo lungo.

12. Il Testo unico ha disegnato un buon sistema di controlli, affidando ai revisori il controllo contabile e ai sindaci il dovere di vigilare affinché l’attività degli amministratori sia conforme alle prescrizioni legislative e regolamentari, con obblighi di denuncia alla Consob e poteri di denuncia in tribunale. La Consob vigila sull’operato di entrambi, con la facoltà di irrogare o di proporre sanzioni, di denunciare i collegi sindacali al tribunale, di impugnare i bilanci.

Alle società di revisione è fatto divieto di esercitare contemporaneamente attività di consulenza, al fine di evitare conflitti d’interesse; il loro mandato, triennale, non può essere rinnovato per più di due volte. Il divieto può tuttavia essere aggirato; sulla rotazione non vi è orientamento univoco in Europa, mentre negli Stati Uniti se ne nega l’opportunità. Oggi la Consob interviene sui revisori soprattutto quando si ravvisano situazioni anomale.

La messa a punto di un controllo sistematico della qualità applicabile con frequenza periodica a tutti i lavori di revisione trova un vincolo nelle risorse disponibili. Successivamente all’adozione del Testo unico la Consob ha attivato i poteri d’impugnativa dei bilanci in quattro occasioni: in tre di queste le società hanno aderito alle osservazioni della Commissione, apportando ai loro conti annuali o consolidati le modifiche richieste. L’esercizio dell’impugnativa affronta casi estremi: più sovente viene esercitata un’attività preventiva di persuasione, mirata alla definizione dei requisiti informativi da applicare in particolari circostanze.

I collegi sindacali hanno faticato ad abituarsi alle nuove responsabilità assegnate ad essi dal Testo unico. Di recente, tuttavia, il loro attivismo nel controllo della gestione delle società è aumentato: lo provano le più numerose segnalazioni di irregolarità che pervengono all’autorità di vigilanza. Una raccomandazione della Consob ha elencato tutti gli adempimenti a cui il collegio sindacale è tenuto e di cui deve dar conto, anche per prevenire possibili censure. In più di un caso la Consob ha proposto al Ministero dell’economia sanzioni amministrative nei confronti dei sindaci; in due casi ha denunciato il collegio sindacale al tribunale, ottenendone le dimissioni.

13. Quando vi è concentrazione della proprietà e del controllo, assumono rilievo peculiare gli obblighi di informazione sulle operazioni di un emittente tali da poter risultare, almeno potenzialmente, in conflitto con gli interessi degli azionisti.

Oggi, gli amministratori devono riferirne con cadenza almeno trimestrale al collegio sindacale, il quale, ove ravvisi motivo di censura, deve riferirne all’assemblea. Questi obblighi non sono sufficienti a garantire agli azionisti un’informazione sufficiente. Il codice di autodisciplina degli emittenti si limita a stabilire che il consiglio d’amministrazione deve vigilare iicon particolare attenzione [sulle] situazioni di conflitto d’interesseln ed esaminare le operazioni di rilievo iicon particolare riferimento alle operazioni con parti correlatelo.

Avvertii lo scorso anno che, in mancanza di iniziative sulle regole di quotazione da parte del gestore del mercato, la Consob sarebbe intervenuta per assicurare un’informazione continua e tempestiva sulle operazioni con parti correlate, anche qualora esse non siano immediatamente configurabili come iofatti idonei – a influenzare sensibilmente il prezzo degli strumenti finanziarilt.

Nell’annuale revisione dei regolamenti, sottoposta alla consultazione, si prevede che gli emittenti debbano mettere tempestivamente a disposizione del pubblico un’informazione sulle operazioni atipiche, inusuali o significative concluse con le parti correlate, di cui si dà precisa definizione.

14. E’ importante che il pubblico sia tempestivamente informato sugli acquisti e le vendite di titoli della società e delle sue controllate compiuti dagli amministratori. Negli Stati Uniti gli insiders della società devono denunciare le negoziazioni entro il decimo giorno successivo al mese in cui avvengono; dopo il caso Enron, la Sec intende imporre obblighi più stringenti a carico delle società, mentre una recentissima proposta di legge del Congresso prevede un’informazione giornaliera da parte delle persone fisiche alla Sec, che la renderebbe disponibile al pubblico entro il giorno successivo. Nel nostro sistema l’obbligo d’informazione sui titoli posseduti dagli amministratori, a carico delle società, ha solo cadenza annuale, in occasione del bilancio.

Borsa Italiana potrebbe assicurare un’informazione continua intervenendo sui requisiti di quotazione nel suo regolamento. Si auspica che le iniziative assunte recentemente a tal fine trovino rapida e soddisfacente definizione. Se così non fosse, si renderebbe opportuno un intervento legislativo.

Il mercato e le borse

15. Nel 2001 è continuata la tendenza a un calo delle quotazioni delle azioni italiane manifestatasi nel secondo semestre dell’anno precedente. In media d’anno la riduzione per gli indici principali del Mercato Telematico Azionario è stata di circa il 25 per cento, dopo una leggera crescita nel 2000; di circa il 45 per cento, quasi doppia rispetto a quella dell’anno precedente, per il Nuovo Mercato. In Italia e in Europa la discesa dei corsi è stata più accentuata di quella verificatasi nel mercato americano, ove l’indice Dow Jones ha perso meno del 15 per cento negli ultimi due anni.

La revisione al ribasso delle prospettive di crescita degli utili societari associata ad un aumento, probabilmente transitorio, del premio al rischio spiega gran parte della discesa dei corsi azionari nei principali paesi industrializzati.

Il costo del capitale di rischio delle imprese è aumentato, determinando ovunque una forte contrazione del flusso di nuove quotazioni. Nel 2001 sui mercati regolamentati italiani sono state ammesse a negoziazione diciotto società, a fronte di una media annua di trentasei negli anni 1998-2000. Il numero di società italiane con azioni quotate nei mercati regolamentati, già basso rispetto agli altri principali mercati dell’Europa continentale, si è ridotto nel 2001.

È aumentata la concentrazione del mercato, che si era costantemente ridotta negli ultimi cinque anni: alla fine del 2001 il peso dei primi cinque titoli sulla capitalizzazione complessiva ha superato il 41 per cento, rispetto al 37 di fine 2000. L’anomala esiguità del numero delle società quotate in Italia non trova spiegazione soddisfacente nella frammentazione della struttura produttiva e industriale, né nel vantaggio fiscale concesso al capitale di debito rispetto a quello di rischio. Il flusso di nuove quotazioni appare piuttosto sensibile alla dinamica del ciclo di borsa e all’andamento del costo del capitale di rischio.

Nel corso del ventesimo secolo il nostro paese aveva conosciuto solo due episodi di affollamento di nuove quotazioni, entrambi avvenuti in coincidenza con forti aumenti reali dei corsi azionari: il periodo 1905-1907 e quello 1985-1986. Una terza ondata si è registrata nel 2000, con il consistente afflusso di società sul Nuovo Mercato, sospinto, anche questa volta, dal rialzo violento e il più delle volte ingiustificato delle quotazioni di imprese della cosiddetta new economy.

Il calo dei corsi ha provocato una significativa riduzione della capitalizzazione complessiva del mercato: dal 70 per cento del prodotto interno nel 2000 al 50 per cento circa nel 2001. Il peso del mercato italiano sui mercati dell’eurozona in termini di capitalizzazione è diminuito dal 14 per cento del 2000 al 12 per cento circa. Si è parimenti ridotto il controvalore complessivo degli scambi di titoli azionari, anche se il rapporto di turnover è rimasto largamente superiore all’unità.

16. Il processo di trasformazione delle borse in società a fini di lucro si è accelerato, con la quotazione di alcune delle principali borse europee e la conseguente apertura del capitale ad azionisti esterni diversi dagli intermediari- negoziatori. Agli impetuosi sviluppi di tecnologia e di organizzazione che hanno caratterizzato l’industria delle borse negli anni più recenti si contrappone l’inerzia del quadro regolamentare europeo in materia di mercati e di quotazione.

Le direttive tutt’ora vigenti in tema di requisiti per l’ammissione alla quotazione e di prospetto fanno riferimento a una nozione di iimercato ufficialelo, che era coerente con la connotazione pubblicistica delle borse, ma che risulta ormai del tutto superata dal processo di privatizzazione e dal miglioramento della qualità dei mercati. Il concetto più generale di mercato regolamentato è pienamente recepito nel nostro Testo unico della finanza, in cui si abbandona ogni distinzione fra mercato ufficiale e altri mercati.

Lo stesso Testo unico affida al gestore del mercato la verifica dei requisiti di ammissione e all’autorità di vigilanza il controllo del prospetto. Questa ripartizione di compiti fra istituzioni pubbliche e soggetti privati pone problemi noti. La qualità della verifica dei requisiti di quotazione interessa gli investitori; d’altra parte, il costo di quel servizio è sopportato dagli emittenti nella forma di commissioni pagate alla società di gestione. Si manifesta pertanto il rischio che la qualità del servizio sia inferiore a quella desiderabile; lo mitiga la concorrenza fra mercati, che impone il mantenimento di una adeguata qualità. Potrebbe ancor più mitigarlo un assetto proprietario e di governance della società di gestione compatibile con un corretto bilanciamento di interessi. L’alternativa di affidare all’autorità pubblica il controllo della sussistenza dei requisiti minimi di quotazione, lasciando alle società di gestione la facoltà di stabilire requisiti aggiuntivi, costituirebbe un passo indietro rispetto alle tendenze recenti di privatizzazione dei mercati; d’altra parte, garantirebbe l’omogeneità delle condizioni minime per la quotazione e renderebbe più agevole la coesistenza di più mercati regolamentati all’interno dello stesso paese, come mostra l’esperienza inglese. La quotazione delle borse su mercati da esse stesse gestiti pone il problema di definire in qual modo le società di gestione possano esercitare nei confronti di se stesse le funzioni di rilevanza pubblica di ammissione a quotazione e di successiva vigilanza – ad esse affidate nell’ordinamento.

La tutela dei consumatori di servizi finanziari

17. Il caso Enron ha attirato l’attenzione del pubblico su un problema che era già noto e di cui si era già fatta menzione in precedenti occasioni: l’affidabilità delle analisi sulle prospettive di società quotate e dei consigli sul peso che le azioni di esse dovrebbero avere nei portafogli degli investitori.

Il problema nasce dall’esistenza di un potenziale o effettivo conflitto fra le esigenze di imparzialità dell’analisi e i rapporti d’interesse intrattenuti con le società dalle istituzioni finanziarie che impiegano l’analista: la forza di quei rapporti troppo spesso travolge le cosiddette muraglie erette dalle regole interne che dovrebbero separare l’attività (molto lucrosa) di assistenza finanziaria e di consulenza da quella di studio (assai meno lucrosa).

Prima del caso Enron, e prima di altre autorità di vigilanza, la Consob è intervenuta sulla materia, pur se l’ambito dei suoi poteri è esiguo: la figura dell’analista finanziario non è specificatamente prevista dalla legge, mentre le potestà di indirizzo sulle scelte organizzative degli intermediari per cui gli analisti lavorano sono limitate. È stato imposto l’obbligo di rendere esplicite, dettagliandole e motivandole, le situazioni di potenziale conflitto di interessi. È stata prevista una tempestiva pubblicità degli studi, per consentire a tutti gli attori del mercato di valutarne l’attendibilità e l’indipendenza. Si sono raccomandati comportamenti e modalità di distribuzione e di redazione degli studi onde rendere più trasparenti gli interessi sottostanti e più difficile un uso distorto delle informazioni. Nei casi in cui queste prescrizioni non sono state osservate si sono avviati procedimenti sanzionatori.

L’efficacia della regolamentazione italiana trova ostacolo sia nella persistente divergenza di approcci regolamentari fra diversi paesi, che incentiva l’arbitraggio normativo, sia nell’assenza di valide forme di autodisciplina, che integrino e rafforzino le previsioni regolamentari. Sotto la spinta della vicenda Enron e su sollecitazione della Sec, l’associazione dei brokers americani (NASD) ha recentemente deciso di adottare nuove e più penetranti regole di condotta.

L’organizzazione internazionale dei regolatori (Iosco) intende stabilire principi a cui si dovrà ispirare la regolamentazione degli studi. Per contemperare l’esigenza di tutelare gli investitori dai conflitti d’interessi e la necessità di non penalizzare l’industria italiana con una regolamentazione più rigida di quella altrove vigente, la Consob ha riesaminato il problema con il contributo delle associazioni di categoria. Il fine è quello di disegnare un sistema che non imponga obblighi indifferenziati, ma incida su quei soggetti il cui comportamento si discosti dalla best practice della professione.

18. Fra il 1995 e il 2001 il peso delle gestioni individuali e collettive sulla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è passato dal 10 al 30 per cento circa. Il settore si sta aprendo alla concorrenza dei gestori esteri: i prodotti autorizzati di soggetti non residenti sono passati da circa 400 nel 1995 ad oltre 2000; aumenta anche la quota dei prodotti di società di gestione domiciliate all’estero, per la maggior parte in Lussemburgo, controllate da banche e intermediari domestici. La crescente diffusione di prodotti collegati ad indici ha determinato importanti benefici, ma anche alcuni potenziali rischi: da un lato, favorisce maggiore liquidità e agevola l’uso di strumenti di copertura; d’altro canto incoraggia l’omogeneità di comportamenti sul mercato, con la conseguenza di amplificare i trend e di aumentare la volatilità di breve periodo.

Alla clientela individuale vengono oggi offerti prodotti più complessi e sofisticati, come le gestioni patrimoniali in fondi e i fondi di fondi. In linea di principio questi prodotti consentono di ampliare la gamma di combinazioni efficienti di rischio e rendimento offerta ai risparmiatori, ma presentano anche rischi di scarsa trasparenza dei costi e di conflitti di interesse.

La pratica diffusa di accordi di retrocessione di commissioni fra le società che gestiscono i fondi di fondi e quelle che gestiscono i fondi in portafoglio può determinare una struttura di incentivi in contrasto con gli interessi dell’investitore, in termini sia di costi commissionali sia di scelte d’investimento meno efficienti. La Consob è intervenuta, richiedendo alle società di gestione l’indicazione nei prospetti informativi degli accordi di retrocessione e l’inserimento delle commissioni da essi derivanti fra gli oneri rilevanti ai fini del calcolo del rapporto fra costi e patrimonio.

Una carenza di informazione ai risparmiatori può anche manifestarsi quando vengano offerti prodotti analoghi in termini di politiche e stile di gestione. Si tratta di un fenomeno fisiologico quando vi siano ostacoli alla fusione di fondi simili delle stesse società di gestione. In altri casi si deve valutare se le significative differenze di risultati fra fondi simili della stessa società di gestione, spesso concentrate su intervalli temporali molto brevi, siano frutto di politiche volte ad alterare la performance relativa, anche mediante operazioni di trasferimento di titoli a prezzi non in linea con quelli di mercato.

19. Nonostante questi motivi di preoccupazione, i fondi comuni e le Sicav, in quanto soggetti alla disciplina della sollecitazione e a stringenti obblighi di informazione del valore delle quote, sono tra i prodotti finanziari più trasparenti. Esistono invece altri strumenti, quali i prodotti assicurativi a prevalente contenuto finanziario e le obbligazioni strutturate offerte dalle banche, che presentano caratteristiche analoghe ai fondi comuni, ma possono rispettare regole di trasparenza assai meno rigide sia al momento del collocamento sia nelle fasi successive: i prodotti assicurativi sono completamente esentati dalla disciplina sulla sollecitazione; per le obbligazioni che non consentano di sottoscrivere o acquisire azioni il prospetto informativo è richiesto solo in caso di quotazione (meno di un quinto del totale).

Nel primo semestre del 2001 i prodotti assicurativi collegati a fondi di investimento o ad indici rappresentavano oltre il 55 per cento dei premi lordi delle assicurazioni vita; a fine settembre le obbligazioni bancarie strutturate (includendo anche quelle che contengono esclusivamente clausole di rimborso call o put) erano quasi la metà delle emissioni totali delle banche, e circa il 9 per cento del totale delle attività finanziarie sull’interno dei residenti. In entrambi i casi, gli indici o i panieri di riferimento sono simili a quelli impiegati nella gestione dei fondi comuni. In particolare, le obbligazioni strutturate presentano meccanismi di indicizzazione sempre più complessi degli interessi o del capitale a scadenza, e spesso con più di una clausola di riferimento. Ne possono risultare compromesse la liquidità e l’efficienza della formazione dei prezzi: per questi motivi sono state recentemente ritirate dal mercato emissioni per un importo complessivo di circa 1,7 miliardi di euro.

Nel genus delle obbligazioni strutturate la specie delle cosiddette reverse convertible pare in via di estinzione: nei primi nove mesi dello scorso anno le emissioni sono state di appena 300 milioni di euro, a fronte di 3,4 miliardi nel 1999 e di 2,5 nel 2000. La Consob, nella sua opera di educazione dell’investitore, ha pubblicato sul proprio sito una guida ai rischi di questi strumenti; ha sinora inviato alla magistratura cinque segnalazioni di aggiotaggio su titoli azionari ad essi sottostanti.

Verso un mercato unico dei servizi finanziari in Europa?

20. Molti problemi che si pongono alle autorità nazionali di vigilanza dei mercati troverebbero migliore soluzione in un ambito di comuni regole europee. Al fine di accelerare il lento processo di armonizzazione, un gruppo di esperti (il comitato Lamfalussy) propose alcune innovazioni per rendere più spedita la legislazione comunitaria nel settore della finanza. La battaglia fra istituzioni europee su quelle proposte si è conclusa con una tregua.

Il Consiglio europeo di Stoccolma ha accettato il metodo raccomandato: le direttive, soggette alla codecisione fra Consiglio e Parlamento europeo, devono stabilire principi generali; la definizione e il successivo adattamento delle disposizioni tecniche sono demandati a una normativa di secondo livello di iniziativa della Commissione, con l’assistenza di un comitato delle autorità di vigilanza (Committee of European Securities Regulators), su cui decide un comitato di rappresentanti dei governi (Securities Committee). La Commissione ha istituito i due comitati nel giugno scorso. Il Parlamento, ostile alla possibilità di delega, ha ottenuto che, per ogni direttiva, la facoltà di attuare e di adattare le regole tecniche al secondo livello debba essere rinnovata ogni quattro anni in sede legislativa (sunset clause).

Di tregua si tratta, e non di soluzione stabile e soddisfacente, per due motivi. La sunset clause, con un termine calcolato dalla data di entrata in vigore delle direttive e non da quella della successiva trasposizione nelle legislazioni nazionali, rischia di ridurre notevolmente la possibilità di adeguare tempestivamente le norme alla mutevole realtà dei mercati mobiliari senza ripercorrere l’intero processo legislativo. Soprattutto, il Parlamento tende a riappropriarsi dei poteri concessi, restringendo l’ambito delle regole affidate alla normazione di secondo livello, come è già avvenuto nell’esame delle direttive sui prospetti e sugli abusi di mercato.

21. Il Piano di Azione dei Servizi Finanziari, su cui i governi reiterano il loro consenso in occasione di ogni Consiglio europeo, ha tuttavia compiuto qualche progresso. È stato approvato il regolamento del Consiglio, che, entro il 2004, introduce la società europea: un nuovo modello societario, che si affiancherà a quelli esistenti.

Il Parlamento, pur se con alcuni emendamenti che richiederanno una procedura di conciliazione, ha approvato la proposta di regolamento sull’adozione a livello europeo dei principi contabili internazionali: dal 2005 le imprese con azioni quotate dovranno redigere i propri conti consolidati applicando quei principi, restando nella facoltà degli Stati membri di imporre la stessa disciplina anche per i conti individuali delle società. Il cammino delle altre due direttive all’esame del Parlamento è più accidentato. La direttiva sul prospetto si propone di introdurre un passaporto unico per gli emittenti in base al principio del paese di origine, di adeguare ed armonizzare i requisiti di informazione, di ammettere per le emissioni successive il rinvio al documento di registrazione, di semplificare il regime linguistico.

In primo esame il Parlamento ha introdotto modifiche poco condivisibili e tali da alterare lo stesso impianto della proposta: non sarà semplice raggiungere un accordo soddisfacente con la Commissione e con il Consiglio prima del secondo esame. La proposta di direttiva sugli abusi di mercato estende la definizione dell’insider trading (anche sotto la spinta degli avvenimenti dell’11 settembre) e introduce una disciplina comune della manipolazione. Prevede inoltre un regime di sanzioni amministrative, aumentando i poteri dell’autorità competente, ma lasciando libertà ai singoli paesi di affiancarvi sanzioni penali.

In prima lettura il Parlamento ha ridotto la portata della definizione di manipolazione, rendendone più difficile la repressione, e ha limitato i poteri d’indagine. Il recepimento della direttiva richiederà comunque la riscrittura delle norme del Testo unico della finanza sull’abuso di informazioni privilegiate e sull’aggiotaggio su strumenti finanziari, anche per definire l’entità e la procedura di irrogazione delle sanzioni amministrative. La proposta di una nuova direttiva sui servizi di investimento è ancora in fase di elaborazione da parte della Commissione. Dopo la bocciatura parlamentare, per un solo voto, della proposta di direttiva sulle offerte pubbliche d’acquisto un gruppo ad alto livello di esperti di diritto societario ha presentato un rapporto su richiesta della Commissione.

Le indicazioni, largamente condivisibili e di cui molte trovano già attuazione nella nostra legislazione, vanno al di là di quelle della defunta direttiva: la strada verso un accordo politico è ancora impervia. La fragilità della costruzione istituzionale dell’Europa continua a frapporre un ostacolo alla costruzione di un mercato unico dei servizi finanziari.

Signor Ministro, Autorità, Signore e Signori,

La finanza cresce: crescono i mercati; si impiegano tecniche più avanzate; si diffondono nuovi prodotti. Non tutte le innovazioni finanziarie sono funzionali a un maggiore e più solido sviluppo delle economie; ma il saldo netto è certamente positivo. Per certo, la crescita della finanza aumenta e rende più gravoso l’impegno delle autorità di vigilanza: il risparmiatore soggiace più facilmente al fascino indiscreto delle novità; le regole faticano ad adattarvisi; fattispecie consuete assumono connotazioni diverse.

La difficoltà del compito è maggiore, perché l’autorità di vigilanza dei mercati ha due interlocutori, e non uno solo: gli investitori, che essa deve tutelare, e gli emittenti, gli intermediari, i gestori del risparmio, che essa deve vigilare, senza tuttavia comprometterne la capacità di crescere e di competere. L’una categoria e le altre si rivolgono all’autorità con istanze variegate e non sempre compatibili. Si lamentano alcuni di un difetto di regolamentazione; altri di un eccesso. Si lamentano alcuni di regole troppo generiche, che non elencano con precisione tutti gli adempimenti e lasciano spazio eccessivo all’interpretazione; altri di regole troppo puntuali e pedanti.

È difficile trovare l’equilibrio ideale fra esigenze tutte comprensibili, ma contrastanti. Le regolamentazioni della Sec o della Financial Services Authority del Regno Unito hanno dimensioni ben superiori alla nostra. Il Testo unico ha scelto una normativa per principi, affidando alla Consob una potestà regolamentare, anche con spazi di scelta discrezionale.

I tre regolamenti in attuazione del Testo unico si caratterizzano per un minor dettaglio di prescrizioni rispetto a quelli previgenti: fu una scelta condivisa dal mercato nella consultazione che avvenne prima dell’emanazione. Alla Consob si chiedono, giustamente, tempi di risposta rapidi, anche quando, nell’ambito di quella che i giuristi definiscono attività amministrativa atipica, la legge non fissi termini: nel caso, ad esempio, di risposte a quesiti, rese nel numero di circa cento all’anno nella media dell’ultimo quadriennio.

Eppure, si chiede anche alla Consob di porre rigidi argini procedurali a tutta intera la sua attività, e non solo a quella che dà luogo a provvedimenti amministrativi tipici; o si pretende che entro tale tipicità debba essere ricompreso qualsivoglia atto della Consob, si tratti di raccomandazioni, di pareri richiesti dall’esterno o di espressioni di opinione che non producono direttamente effetti giuridici vincolanti. Non pare facile conciliare richieste siffatte con l’esigenza, espressa dal mercato, di prassi di consultazione e di collaborazione più snelle e più efficienti. La consultazione e la collaborazione giovano alla Consob, perché alleviano e agevolano l’opera di vigilanza. Si sono intensificate in tempi recenti, con alcuni partecipanti al mercato più che con altri. Devono essere rinforzate, in un dialogo che avvenga in piena trasparenza di rapporti: con la necessaria distinzione di ruoli e responsabilità, ma con la comune consapevolezza che la qualità, la trasparenza e l’efficienza del mercato devono rappresentarne l’obiettivo.

Per saperne di più leggi lo speciale di Wall Street Italia sulla relazione annuale della Consob.