(WSI) – Il campione delle perdite per il momento è lui, Giuseppe Rotelli, padrone di cliniche e ospedali. Per conquistare un posto al sole tra i grandi soci del Corriere della Sera ha speso 350 milioni e ne ha già bruciati 150 (circa) nel gran falò dei mercati dal 2007 in avanti. Peggio ancora. Mercoledì, per l’ennesima volta il patto di sindacato che governa le sorti del Corrierone ha deciso di non prendere neppure in considerazione il suo ingresso, forte di una quota dell’11 per cento, nel gruppo di comando del gruppo.
Un disastro, insomma. Ma almeno Rotelli, che è l’unico azionista delle aziende che dirige, ha perso solo soldi suoi. Lo stesso non si può dire per molti dei grandi soci della Rcs media, la società quotata in Borsa che pubblica, tra l’altro, il più blasonato tra i quotidiani italiani. Nomi altisonanti del capitalismo nazionale, dagli Agnelli a Giampiero Pesenti, da Salvatore Ligresti a Marco Tronchetti Provera, comandano al Corriere grazie ai soldi degli altri. E cioè i piccoli azionisti delle loro aziende. Per di più, l’investimento nel quotidiano di via Solferino finora non ha fruttato granché. Anzi, nei bilanci si accumulano svalutazioni e perdite per decine di milioni. Un discorso simile vale anche per i gruppi finanziari azionisti del Corriere: Mediobanca, Generali, Banca Intesa.
Ma vediamo, numeri alla mano, come stanno le cose. Si parte da un dato fondamentale. Tre anni fa le azioni Rcs quotavano in Borsa intorno ai 4 euro. Adesso viaggiano vicino a 1,20, dopo essere scese fino a 0,5 euro a marzo 2009. Questo terremoto ha finito per avere conseguenze pesanti per il povero (si fa per dire) Rotelli. Ma anche altri protagonisti della vicenda, a cominciare dai soci più influenti del patto di sindacato, si sono trovati in bilancio azioni acquistate a quotazioni di gran lunga superiori rispetto a quelle correnti. E allora, nel tentativo di limitare i danni, gli azionisti di comando hanno escogitato le soluzioni più diverse. Giochi contabili, peraltro perfettamente legali, per attutire l’effetto Rcs sui conti delle loro aziende.
Ecco qualche esempio. La Pirelli di Tronchetti già nel 2008 ha svalutato per 65 milioni la sua quota nel Corriere (il 5,3 per cento). La perdita sarebbe stata ancora maggiore se si fosse mantenuta la quotazione di Borsa come criterio di valutazione. La Pirelli, però, ha sfoderato una perizia che fissa in 1,7 euro per azione il cosiddetto “valore d’uso” della partecipazione. E questo basta per evitare di allineare la voce di bilancio al prezzo di Borsa. Un fatto, quest’ultimo, che avrebbe obbligato la Pirelli a contabilizzare una perdita maggiore. L’Italmobiliare di Pesenti si è mossa nello stesso modo. Nel 2008 il gruppo del signore del cemento ha perso 55 milioni su Rcs (7,7 per cento del capitale). Ma questa volta il valore d’uso è inferiore: 1,6 euro. Anche questo calcolo è certificato da una perizia ad hoc.
A Mediobanca invece sono ottimisti. Per loro la società del Corriere vale 1,9 euro per azione. Ovviamente anche qui è tutta questione di valore d’uso. Nel bilancio al 30 giugno 2009, l’ultimo disponibile, gli amministratori della banca all’epoca guidata da Cesare Geronzi spiegano una valutazione tanto distante dalla quotazione di Borsa con “l’unicità di taluni asset posseduti” da Rcs. Come dire: di Corriere ce n’è uno solo e il marchio di per sé fa la differenza. C’è poco da festeggiare, però. Mediobanca, primo azionista con una quota del 14,3 per cento, l’anno scorso ha perso più di 90 milioni sulla sua partecipazione editoriale. Intesa invece ha bruciato 78 milioni.
Anche Ligresti viaggia in rosso, almeno a giudicare dai bilanci. La sua Fondiaria infatti è in crisi e passa da un piano di ristrutturazione all’altro. Poco male. Le ambizioni di Ligresti di dire la sua nella gestione del Corriere hanno causato perdite supplementari per 109 milioni nel bilancio 2008 della compagnia. Probabilmente i piccoli azionisti del gruppo assicurativo ne avrebbero fatto volentieri a meno. Nei conti della Fiat, invece, la voce Corriere vale 131 milioni. In Borsa la quota del 10,1 per cento in mano agli Agnelli costerebbe circa 90 milioni. Svalutare? Nemmeno per sogno, perchè, come si legge nella relazione degli amministratori, “la misurazione in base ai valori borsistici è poco significativa”.
Molti analisti concordano in pieno su questa conclusione. E il motivo è presto detto. Il flottante in Borsa, cioè il numero di titoli che può essere venduto e comprato sul mercato, è ormai ridotto al lumicino. Se si sommano le quote bloccate nel patto di sindacato (63,5 per cento) con un altro 21 per cento di proprietà di altri grandi azionisti, come Rotelli, Toti e Benetton), si arriva a sfiorare l’85 per cento a cui va sommato per lo meno un altro 5 per cento riconducibile a investitori istitutzionali e quindi di difficile smobilizzo. Risultato: sul mercato resta il 10 per cento, forse meno. Troppo poco perchè il titolo non diventi facile preda della speculazione. Ma per la Consob è tutto regolare.
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