ROMA (WSI) – Precari o evasori? Parlare di partite Iva oggi non sembra essere più semplice come negli anni ’90. Ci hanno provato di recente i sindacati: per la Camusso si tratta di “evasori”, Bonanni cerca di intercettare la platea lanciando uno sfortunato hashtag su twitter e proponendone la “regolarizzazione”.
Dopo l’approvazione il 20 marzo del decreto sul Jobs Act di Matteo Renzi, con gli interventi sui contratti a termine e apprendistato, in realtà il tema della partite Iva è tornato alla ribalta. A cominciare dal bonus annunciato di 80 euro in busta paga ai dipendenti. «Anche il lavoro indipendente deve beneficiarne», propone sul proprio sito l’Acta, associazione del terziario.
Il ministro del lavoro Poletti si è espresso in merito: «I precari veri sono le partite Iva fasulle», ovvero quei lavoratori autonomi che svolgono mansioni da dipendente, con orari e postazione fissi, con un unico datore di lavoro. La liberalizzazione dei contratti determinati contenuta nel Jobs Act dovrebbe portare, secondo il ministro, alla diminuzione di questi abusi: l’azienda non ti costringerà più ad aprire la partita Iva per non pagare i contributi se può prenderti per 3 anni a tempo determinato.
Eppure, la materia è complessa. E le considerazioni di Poletti non sembrano cogliere il punto: la natura della partita Iva è cambiata nel corso dell’ultimo decennio. Dopo la proliferazione che ha portato a includere nella categoria anche infermieri, dottori, parrucchieri, giornalisti e perfino qualche bagnino. E sono ormai in molti a pensare che questo cambiamento debba portare a una riforma della categoria. Anzitutto sul regime contributivo.
«Col livello di tassazione attuale non ?auguro a nessuno di aprire partita Iva in questo momento», spiega Denise, che ha 32 anni e lavora come infermiera. «Pago acconti tra il? 100 e il 102%, praticamente quello che dovrei pagare viene raddoppiato. E l’Inps è troppo alto». E senza nessuna possibilità di fare nero: «Lavoriamo per imprese, enti pubblici, terzo settore: non possiamo che fatturare tutti i nostri servizi», precisa l’Acta.
Forse è arrivato il momento di distinguere fra partite Iva. Proviamo con tre categorie: 1) Imprenditori e professionisti. 2) I lavoratori indipendenti, principalmente iscritti alla gestione separata, che lavorano spesso in monocommittenza. 3) Le false partite Iva. È la seconda categoria ad interessarci: «Non siamo false partite Iva, ma veri lavoratori indipendenti», scrive ancora l’Acta. «Con una pressione fiscale analoga a quella dei dipendenti, ma senza le tutele. Siamo oltre un milione e mezzo». E tra questi sono molti i giovani.
Nel 2013 si sono aperte 527mila nuove partite Iva (cifra simile nel 2012, con un calo del 4.4%). Di queste il 78.4% sono relative a persone fisiche (partite Iva individuali) e il 50% è costituito da giovani sotto i 35 anni. Considerato il tasso di disoccupazione giovanile del 42.2% si tratta di numeri considerevoli.
«Ho aperto la partita Iva 2 anni fa», racconta Giancarlo, che ha 29 anni e fa il grafico. «Col regime dei minimi per i giovani non è male, tra Inps e Irpef pago in tutto il 33% di tasse. Ma il primo anno mi hanno massacrato gli acconti». Il sistema degli acconti, infatti, penalizza proprio chi ha ha appena iniziato a lavorare: «Lavori. Paghi le tasse l’anno successivo» continua Giancarlo «Ma a dicembre ti trovi a dover anticipare anche le tasse dell’anno che verrà, e per chi si trova all’inizio questo significa pagare 2 anni di tasse su uno di lavoro, mentre gli anni successivi il problema si risolve dato che sulle tasse da pagare si sconta l’acconto pagato l’anno precedente».
Mentre le stime sindacali concordano nel conteggiare le false partite Iva come il 10% del totale (500mila), sarebbe il 20% l’area del lavoro indipendente. Tra un milione e un milione e mezzo di persone. Questa categoria includerebbe tutti gli iscritti alla gestione separata dell’Inps, ma non solo: 300mila partite Iva, 650mila co.co.pro e 50mila co.co.co. Categoria su cui l’Inps pesa per il 28% ma che con la Riforma Fornero dovrebbe arrivare al 34% nel 2019.
«Le Partita Iva sono la cassa dello stato», dice Gianni che ha appena compiuto 40 anni e fa il fotografo. «I minimi sono impossibili da sostenere» continua «e fuori dai minimi la pressione fiscale a conti fatti rappresenta oltre il 70% del fatturato. Lo Stato mi suggerisce che è meglio lavorare di meno, guadagnare poco e vivere con niente». Il problema è reale: per mantenere il regime dei minimi e pagare 28% di Inps e 5% di Irpef bisogna mantenere un reddito sotto la soglia di 30mila euro lordi l’anno. ?
Insomma, da una parte gli imprenditori che possono evadere. Dall’altra precari in regola, non finte partite Iva, ma lavoratori indipendenti con poca autonomia gestionale (e di cassa) che difficilmente potranno essere commutabili in co.co.pro. E su cui si potrebbe intervenire. Le proposte avanzate finora per la regolarizzazione o tutela delle nuove partite Iva, sono principalmente due, come riportato anche dalla Cisl: taglio dell’Inps e salario minimo. Se l’Inps fosse equiparato a quello dei lavoratori dipendenti (la cui aliquota media a carico della ditta equivale al 32.70% ma quella a carico del dipendente è del 9.2%) sarebbe molto diverso.
Poi, il salario minimo. È questo il punto fondamentale (ma meno immediato di un taglio dell’Inps), perché una partita Iva dovrebbe essere pagata di più dovendosi pagare da sola tutti i contributi. Un emendamento del Ddl Fornero portava a 18mila euro lordi l’anno la soglia per distinguere una vera partita Iva da una falsa (nel caso specifico di prestazioni lavorative connotate da competenze teoriche o pratiche di grado elevato). È questa una buona soglia da tenere in considerazione per la costituzione di un salario minimo.
Copyright © Espresso – La Repubblica. All rights reserved