Non è di certo una novità che l’Italia sia uno tra i Paesi con il carico fiscale più elevato al mondo ma ora un’ulteriore conferma arriva anche dall’Ocse.
Le rilevazioni per il 2016 dell’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, infatti, riportano che nel nostro Paese il costo orario medio del lavoro si è attesti a 27,8 euro. Il dato presenta una leggera flessione rispetto all’anno precedente (-0,4%) e risulta essere inferiore di 2 euro l’ora in rapporto alla media dell’area euro, dove primeggiano Lussemburgo, Olanda e Belgio.
Dal punto di visto del livello di competitività internazionale si può invece affermare che un dipendente italiano costi meno di uno tedesco o francese, ma più di uno spagnolo o di un britannico (in quest’ultimo caso tenendo però conto del tasso di cambio con la sterlina). Questa situazione deriva dall’elevato cuneo fiscale (ovvero, tasse + contributi sociali) che si abbatte sui contratti.
In Italia si registra infatti l’incidenza più elevata dei costi non salariali dopo Francia (33,2%) e Belgio (27,5%), con una percentuale pari al 27,4%.
I numeri sopracitati, tuttavia, paiono essere smentiti dai dati reali: secondo una recente analisi della Cgia di Mestre basata sulle buste paga di un operaio e di un impiegato si scopre che l’incidenza del fisco, della previdenza e dell’assistenza è molto più elevata.
Un operaio con uno stipendio netto di poco superiore ai 1.350 euro mensili costa al titolare circa il doppio; per la precisione 2.357 euro. Tale importo è dato dalla somma della retribuzione lorda (1.791 euro) e dal prelievo contributivo a carico del datore di lavoro (566 euro).
Il cuneo fiscale , che è dato dalla differenza tra il costo per l’azienda e la retribuzione netta, è pari a 979 euro ed incide sul costo del lavoro per il 41,5%.
Invece un impiegato con una busta paga netta di poco superiore ai 1.700 euro al mese, impone all’imprenditore di farsi carico di un costo di oltre i 3.200 euro. Anche in questo caso la cifra è composta dalla retribuzione mensile lorda (2.483 euro) cui si aggiungono i contributi mensili versati dall’azienda (729 euro).
Il cuneo fiscale, dunque, è di 1.512 euro ed incide sul costo del lavoro per il 47,08%.
Questi dati possono spiegare il grande successo dei “vecchi” voucher, i quali erano privi di delle componenti inerenti alle ferie ed al TFR e caratterizzati da aliquote fisse (7,50 euro andavano netti al lavoratore mentre 2,50 euro finivano nelle casse dell’INAIL per l’assicurazione sugli infortuni e dell’INPS come gestore).
Al contrario, i “nuovi” vucher, anche noti come “libretti familiari” ed introdotti dopo l’abolizione dei loro antenati finalizzata ad evitare il referendum Cgil, sono stati usati da circa 16mila soggetti: decisamente un flop, forse dovuto alle nuove modalità di fruizione nonostante la parte di retribuzione netta prevista per il lavoratore sia aumentata di 0,50 euro passando da 7,50 ad 8,00 euro.