Seppure il settore delle criptovalute sia in grande ascesa, questo mercato nasconde anche un lato oscuro. Secondo una nuova ricerca condotta da scienziati delle Nazioni Unite, l’estrazione di criptovalute può avere infatti gravi impatti ambientali.
L’attività di mining, ossia il processo che porta alla creazione di una moneta digitale, necessita di un hardware di elevata potenza, che a sua volta consuma una notevole quantità di energia elettrica. L’elevata domanda di energia rende la creazione di criptovalute dannosa per l’ambiente, poiché richiede una grande produzione di energia tramite fonti inquinanti – carbone ed energia nucleare in primis. In sostanza, il mining contribuisce all’incremento delle emissioni di anidride carbonica e all’aumento dell’inquinamento atmosferico.
Secondo lo studio, durante il periodo 2020-2021, l’intera rete globale di mining dei Bitcoin ha consumato 173,42 Terawattora di elettricità. La metà dei consumi dell’Italia.
Se il Bitcoin fosse un paese, il suo consumo di energia sarebbe al 27° posto nel mondo, davanti a un paese come il Pakistan con una popolazione di oltre 230 milioni di persone.
Quanto combustibile fossile consumano
L’impronta di carbonio è pari all’aver bruciato 84 miliardi di libbre di carbone o della gestione di 190 centrali elettriche alimentate a gas naturale. Per compensare questa impronta, dovrebbero essere piantati 3,9 miliardi di alberi, coprendo un’area quasi uguale a quella dei Paesi Bassi, della Svizzera o della Danimarca o al 7% della foresta amazzonica.
E ancora: la quantità di acqua che si utilizza per minare Bitcoin è pari a 1,65 chilometri cubi, la stessa acqua che c’è in oltre 660.000 piscine olimpioniche, sufficiente a soddisfare l’attuale fabbisogno idrico domestico di oltre 300 milioni di persone nelle zone rurali dell’Africa sub-sahariana. L’impronta terrestre delle attività di mining di Bitcoin in tutto il mondo durante questo periodo era 1,4 volte l’area di Los Angeles.
Il professor Kaveh Madani, direttore dell’Istituto universitario delle Nazioni Unite per l’acqua, l’ambiente e la salute (UNU-INWEH), che ha condotto questo studio, ha affermato che questo studio non intende demonizzare le criptovalute, ma anzi:
I nostri risultati dovrebbero incoraggiarci a studiare interventi normativi e progressi tecnologici che migliorino l’efficienza del sistema finanziario globale senza danneggiare l’ambiente.
Ricordiamo, infatti, che il mining di Bitcoin si basa su fonti energetiche fossili, con il carbone che rappresenta il 45% del mix di energie utilizzate per produrli, seguito dal gas naturale (21%). L’energia idroelettrica è al terzo posto con il 16%, segue poi quella nucleare (9%) e infine le energie rinnovabili come il solare e l’eolico forniscono solo il 2% e il 5% dell’elettricità totale utilizzata da Bitcoin.
L’Italia è il paese dove il mining di criptovalute costa di più
Mentre all’alba dei Bitcoin nel 2009 il processo di mining era piuttosto semplice, ora si è arrivati a un livello di complessità non indifferente, con configurazioni hardware specifiche ma anche con costi dell’energia elettrica crescenti. Un recente studio di Coingecko ha portato alla luce il prezzo dell’energia da sostenere per fare mining di Bitcoin nei diversi Paesi del mondo. Il nostro paese si aggiudica un primato: fare mining in Italia ha il prezzo energetico più elevato di tutto il mondo.
Parliamo più di 197 mila euro spesi per poter produrre un Bitcoin. L’Italia è seguita in questa classifica da Austria (174mila euro) e Belgio (158 mila). Nel resto d’Europa i costi sono più bassi dei nostri (anche se, paragonati ai paesi asiatici o africani, restano comunque tra i più alti): in Germania sono 154mila euro, in Olanda 130mila e nel Regno Unito 123mila.
L’altra faccia della medaglia è invece rappresentata dal Libano, con tariffe che permetterebbero ai cittadini del paese di generare un Bitcoin per soli 266 dollari, ovvero in maniera 783 volte più conveniente rispetto all’Italia.
Segue l’Iran, con 532 dollari, che tuttavia non ha ancora reso legali le operazioni relative al mining, essendo queste un ostacolo per la stabilizzazione della rete energetica del paese, soprattutto durante gli inverni. Giusto a gennaio scorso, infatti, circa 150mila apparecchiature per il mining sono state sequestrate dalle autorità.
Cina, la più grande “nazione mineraria di Bitcoin”
La Cina, con un ampio margine, è la più grande “nazione mineraria di Bitcoin”, anche se negli anni la sua quota è notevolmente calata: dal 73% del 2020 fino al 21% del 2022. Il motivo? Lo stop di tutte le transazioni finanziarie legate alle criptovalute decisa dal governo cinese nel 2021.
La Cina comunque resta uno dei paesi che più mina criptovalute. Per compensare le emissioni di carbonio derivanti da questa attività svolta nel periodo 2020-2021, dovrebbero essere piantati circa 2 miliardi di alberi, coprendo un’area equivalente alla somma di Portogallo e Irlanda. Cina a parte, le 10 principali nazioni minerarie di Bitcoin al mondo nel 2020-2021 includevano Stati Uniti, Kazakistan, Russia, Malesia, Canada, Germania, Iran, Irlanda e Singapore.