LONDRA (WSI) – Londra, ore 10.15 del mattino di un giorno pre-natalizio, in un bar caffetteria vicino Westminster.
Ordino un caffè e una “Sicilian cheese cake”, uno sguardo negli occhi e tra me e la barista scatta l’immediato riconoscimento tra italiani all’estero: “Italiano?”, e io, “Italiana…”.
Proseguo con un sorriso: “Oramai qui si sente parlare più italiano che inglese, ci sono più italiani qui che in centro a Milano, soprattutto fuori dalla City”.
Lei: “eh… purtroppo…”.
Io: “In che senso purtroppo? Dai che a Londra non si sta male…”
Lei: “Sì ma… ti sembra normale che uno per lavorare deve venire fino a Londra? Da noi è un disastro…”.
Io: “Vallo a spiegare ai nostri politici…”
Lei: “Guarda non me ne parlare, non voglio più sapere nulla di cosa succede a Roma…”.
Sembrerebbe un dialogo tra milioni che si consumano nei bar di tutto il mondo, poco significativo, ma già poche ore dopo la stessa scena si ripete in modo quasi identico in un ristorante dello stesso quartiere. E chissà in quanti altri bar e ristoranti di Londra. Basta svoltare l’angolo per trovare italiani ovunque che lavorano nel Regno Unito o stanno cercando lavoro e tutti ti racconteranno la loro storia quasi identica.
Purtroppo sono migliaia gli italiani in fuga dall’Italia, non solo tra chi costituisce la cosiddetta manodopera non specializzata ma imprenditori e liberi professionisti, che una volta generavano lavoro (e contribuivano al gettito fiscale), e ora portano know-how e fatturato altrove.
Dati appena pubblicati indicano in 68 mila le persone che si sono trasferite all’estero nel 2013, in aumento rispetto alle 50mila del 2012 (fonte: Il fatto quotidiano).
Cosa o chi è che mette gli italiani in fuga?
Certamente è la scarsità di lavoro il primo fattore che indirizza gli italiani sulla strada dell’espatrio, a seguire è la pressione fiscale più elevata dei paesi UE a spingere molti a fare impresa dove gli stati sono meno invasivi nelle proprie tasche e come ultimo fattore la demotivazione e l’assenza del “think positive”, una sorta di demoralizzazione collettiva indotta da un ventennio di politica nullafacente ed arraffona.
A determinare questo scoramento dei giovani italiani sono soprattutto tre ordini di fattori:
1) Per i i lavoratori dipendenti: un sistema di lavoro fatto di nepotismo, raccomandazioni e totale assenza di meritocrazia;
Per chi ambisce a fare impresa invece citiamo:
2) La corruzione, in cui l’Italia ha la leadership mondiale;
3) Una burocrazia da incubo che paralizza e inibisce qualunque attività economica;
In una situazione di questo tipo ogni qual volta una azienda nazionale viene acquisita da una multinazionale estera lo scopo è uno solo: acquisizione del know how. Il destino è segnato: trasferimento all’estero dove il costo della produzione è inferiore.
L’Italia si sta avvitando in una spirale senza fine, altro che la “ripresina debole” di cui parla Draghi.
I grafici dell’andamento della disoccupazione in Italia negli ultimi 5 anni messi a confronto con quelli di Francia, Regno Unito e Stati Uniti è significativo e vale più di mille parole. Negli ultimi due anni il Regno Unito ha visto scendere la disoccupazione dall’8,5% al 7.4%, gli Stati Uniti hanno visto la riduzione della disoccupazione di quasi 3 punti percentuali: solo la Francia ha un tasso di disoccupazione con un trend rialzista analogo a quello italiano che deve destare allarme.
Chiunque venga dal mondo della finanza, ma non solo, è consapevole che un trend una sua inerzia che è molto difficile da rovesciare. Per fare questo occorrono manovre incisive da parte di un governo per rilanciare la crescita: negare invece l’evidenza come recentemente ha fatto un noto economista e docente universitario che il 6 febbraio ha sostenuto su Rai2 in diretta tv che la disoccupazione è alta ovunque in conseguenza di una crisi mondiale anche nei Paesi che non hanno l’Euro, significa mentire a sé stessi e agli altri, oppure vivere in un universo parallelo. Se non si riconoscono i problemi è impossibile risolverli.
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Ma i giovani che si avvicinano al mercato del lavoro estero quante opportunità hanno? E soprattutto sono mediamente competitivi con i colleghi europei?
Ci siamo confrontati sul tema con alcuni colleghi della City e ad un recruiter una delle principali banche inglesi.
L’impressione che si ha vivendo a Londra è che ci sia una vera e propria “invasione” di italiani ma che essi ricoprano soprattutto ruoli che richiedono basse competenze e assenza di specializzazione. Nessuno smentisce quella che potrebbe sembrare pura apparenza: il livello di conoscenza della lingua inglese è mediamente più basso rispetto ai colleghi europei che studiano molto più approfonditamente le lingue estere (i bambini italiani iniziano prima a studiare l’inglese rispetto ai tedeschi ma in Germania lo si studia per 6 ore a settimana…) ed inoltre si laureano prima rispetto ai colleghi italiani (in UK l’età media di laurea è di 22,8 anni, oltre due anni prima rispetto alla media italiana). Questo significa affacciarsi sul mondo del lavoro in anticipo ed a pari età avendo già fatto un minimo di esperienza: ed è questo un altro punto critico, gli italiani hanno solide basi teoriche ma poco pratiche.
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Ovviamente esistono le eccezioni ma farsi un giro all’estero rende consapevoli dell’obsolescenza dei programmi scolastici italiani. Invece la scuola, in prospettiva di lungo periodo, ha un peso fondamentale se si vuole rilanciare la competitività dei paesi pensando ai giovani. Scuola, tassazione sul lavoro e spending review devono venire in cima alla lista di qualunque politico, finché non se ne prenderà coscienza l’Italia non uscirà facilmente dal tunnel, lo dicono i fatti.
L’autore Enrico Malverti è un noto Quantitative Analyst italiano. Vive a Londra.