NEW YORK (WSI) – Nella novella The Missile Gap lo scrittore di fantascienza intelligente Charles Stross immagina che Unione Sovietica e Stati Uniti, qualche anno dopo una crisi di Cuba finita a bombe atomiche, continuino faticosamente a farsi guerra in un pianeta che, dopo le numerose esplosioni nucleari del 1962, ha cambiato forma e tipo di campo gravitazionale.
Nel nuovo mondo postatomico non si riesce più a lanciare i missili, che ricadono a terra appena partiti, e ci si deve accontentare di un conflitto a bassa intensità.
Si scoprirà nel finale che il nuovo mondo non è altro che un sofisticato laboratorio-zoo che una specie aliena di insetti bionici, in un’altra galassia, ha ricostruito con finalità di ricerca storica e scientifica dopo che gli umani, nel loro mondo originario, si sono suicidati milioni di anni prima.
La novella è una perfetta illustrazione delle tesi di Nick Bostrom, un filosofo che insegna a Oxford e che è diventato famoso per la sua teoria della realtà simulata, un pugno nello stomaco per le nostre certezze e i nostri sogni di gloria. I casi sono due, dice Bostrom. O accettiamo il fatto assai probabile che civiltà come la nostra, giunte a un certo grado intermedio di evoluzione tecnologica che rende loro possibile autodistruggersi, si suicideranno prima di raggiungere un livello elevato di conoscenze oppure ipotizziamo che riusciranno a sopravvivere ed evolvere.
Nel secondo caso è ragionevole pensare che almeno alcune di queste civiltà sofisticate, per sfizio o per scienza, costruiscano (o abbiano già costruito) quantità enormi di mondi virtuali popolati da topolini di laboratorio e altre specie da esperimento. Tra le realtà simulate, praticamente illimitate nel numero, e l’ipotesi di un unico mondo reale (come quello in cui crediamo di vivere) non c’è gara. È statisticamente molto, molto probabile che quella in cui viviamo non sia altro che una realtà simulata. In pratica, conclude serenamente Bostrom con l’aiuto di numerose equazioni, o stiamo per finire suicidi in tempi brevi oppure siamo già adesso semplici programmi di un simulatore, come nella saga di Matrix.
Seth Klarman, un gestore che parla poco e performa in modo spettacolare, sostiene che dopo la catastrofe del 2008 quello che resta delle nostre economie è stato messo sotto una grande cupola di Plexiglas virtuale. Da allora viviamo in un idilliaco Truman Show globale dove tutto sembra funzionare per il meglio e dove ci viene impedito di farci del male.
I mercati salgono, tutti sono ottimisti e sereni, i tassi sono a zero, la liquidità è abbondante e i pochi scettici sono benevolmente irrisi e considerati simpatici mattacchioni. La differenza rispetto al film è che a essere manipolato e anestetizzato non è solo il povero Truman ma tutto il mondo che vive sotto la cupola. Come finirà, conclude Klarman, lo sappiamo dal film.
Fuori dalla cupola, come il regista del Truman Show, vivono banchieri centrali ed economisti perfettamente consapevoli della precarietà delle cose. La Cina è fragile, il Giappone è fragile, l’Europa è fragile, il Sud America è fragile, la Russia è fragile.
Restano gli Stati Uniti. Dal 2008 sono l’unica regione strutturalmente solida. Purtroppo, dalla fine della crisi, non sono più capaci di crescere come un tempo. Si concede che possano arrivare al 3 per cento (e perfino superarlo) per quest’anno e per il prossimo ed è per questo che, nella cupola, si sta facendo festa. In regia, tuttavia, si sa che questa accelerazione è una tantum e che la velocità di crociera dell’economia americana è scesa irrimediabilmente al 2 per cento e che i margini di profitto delle imprese hanno raggiunto il limite massimo.
Richard Koo sostiene che le cose non andranno tanto bene nemmeno per gli Stati Uniti. Il Quantitative easing, una volta ritirato dalla circolazione, provocherà l’intorpidimento spiacevole tipico di ogni fase di disintossicazione. Nella sua distopia Koo vede nel futuro una lunga ed estenuante teoria di giorni di nuvole basse e scure, senza catastrofi ma anche senza mai un momento di sereno.
Il Qe, dice infatti Koo, non ha fatto salire l’inflazione ma ne ha aumentato la pericolosità potenziale. Non è mai successo, del resto, che una banca centrale abbia preannunciato un aumento dei tassi con un’inflazione all’1.09 per cento e ancora in discesa. Se la Fed lo fa è perché è consapevole dei rischi di inflazione improvvisa che stiamo correndo. I rialzi dei rendimenti a breve, conclude Koo, ci salveranno da un crollo dei bond ma metteranno una cappa di piombo sulla crescita, che resterà strutturalmente asfittica.
Il professor Shiller, dal canto suo, sostiene che l’immobiliare americano è meno forte di quello che sembra e che le borse sono piuttosto care. E tuttavia, pragmaticamente, dice che le azioni saliranno ancora “perché è così che vanno le cose in questi casi”.
Alla fine, per chi investe, va bene così. Le borse non scenderanno e probabilmente continueranno ad andare abbastanza bene. È però importante raccontarsi le cose giuste e non razionalizzare troppo il rialzo dicendo che tutto va benissimo.
Per dirla tutta, si ha l’impressione che i registi fuori dalla cupola, come gli alieni della novella di Stross, stiano cambiando il campo gravitazionale del nostro mondo protetto. Come i missili di Stross, che cadono a terra dopo poche decine di metri di volo per impedire che possano trasportare testate nucleari in campo nemico, i rialzi di borsa di questo 2014 sono effimeri per evitare che le bolle azionarie, per adesso contenute, assumano proporzioni preoccupanti e pericolose.
Quanto ai bond, sembra che i nostri Lord Protettori parlino (in America) di aumento dei tassi a breve per impedire che salgano quelli a lungo, decisivi per il mercato dei mutui sulla casa. Tutto sembra dunque muoversi, nelle parole, affinché nulla si muova sul serio, né le azioni né i bond. Anche nel mondo magico del Quantitative easing, a ben vedere, tutto sembra per aria affinché nulla cambi per davvero, se non i rapporti relativi tra i Lord Protettori.
L’America pratica infatti il tapering e si prepara a mettere in soffitta il Qe. Guarda caso, però, il Giappone la sta sostituendo con importi molto simili e l’Europa, udite udite, non considera più il Qe come teologicamente scorretto e si dichiara pronta a iniziarlo in caso di necessità.
Per il principio dei vasi comunicanti non ha importanza da quale tubo venga immessa l’acqua, conta solo la quantità totale versata. Lo si è visto con il Qe americano, che ha fatto salire il prezzo degli asset non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Il nome e il cognome di chi immette liquidità contano però nella determinazione dei tassi di cambio. Chi pratica il Qe vede (e vuole vedere) indebolirsi la propria moneta, chi non lo pratica si rassegna a vedere il suo cambio rafforzato.
L’euro si è apprezzato dopo il 2012 contro tutte le valute, emergenti e sviluppate, fino a che le esportazioni tedesche sono andate a gonfie vele. Ora che per Bmw, Daimler e Volkswagen diventa ogni giorno più difficile vendere in Cina, in India e in Russia la prospettiva tedesca cambia. Le quattro auto in più che acquisteremo in Italia e Spagna rispetto all’anno scorso non compensano l’indebolimento su mercati ormai molto più grossi dei nostri. Quanto alle vendite in America, le Toyota fabbricate in Giappone sono diventate ancora più competitive grazie alla svalutazione dello yen.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso e costretto la Bundesbank alla revisione del suo apparato dogmatico è l’Ucraina.
Avevamo già scritto che il ritorno della guerra fredda, frettolosamente archiviato dai mercati come caso chiuso, ci accompagnerà a lungo. Sarà, verosimilmente, una conflittualità a bassa intensità, ma sarà in ogni caso dannosa per tutti.
La Russia è il maggiore mercato automobilistico d’Europa, più grande di quello tedesco. A Mosca e a San Pietroburgo, poi, non girano utilitarie, ma vetture ad alto margine. La Germania non ha nessuna voglia di passare alla terza fase delle sanzioni antirusse, quella economica, ma risentirà comunque di quelle già in vigore adesso, perché la domanda russa scenderà. Quanto a gas e petrolio, la Russia sta accelerando il più possibile la riconversione del suo export dall’Europa alla Cina. Occorrerà del tempo, ma la strategia, già impostata da un paio d’anni, è chiarissima.
La politica energetica della Germania, spesso indicata in Italia come esemplare per l’attenzione per le rinnovabili, era in realtà già caotica e disfunzionale prima dell’Ucraina e oggi appare allo sbando. Con il nucleare in via di smantellamento accelerato e con il gas europeo tre volte più caro di quello americano le centrali tedesche vengono oggi alimentate a carbone.
Il risultato di questo capolavoro è più inquinamento, una sovraproduzione di rinnovabili sussidiate, una rete incapace di gestire i picchi, un costo finale dell’energia doppio che in Francia e la fuga della grande chimica di base verso gli Stati Uniti. Da oggi si aggiunge il rischio che la Russia chiuda i rubinetti in un momento in cui non ci sono impianti per rigassificare il gas liquido importabile dall’America o dal Qatar. Certo, la Russia ha bisogno di soldi e non taglierà le forniture se non come ritorsione estrema, ma non è una vita tranquilla.
L’Ucraina rimarrà sull’agenda non solo perché la Russia non si rassegnerà mai alla sua perdita, ma anche perché in America ci sono dinamiche politiche interne che obbligano Obama, che di suo starebbe fermo, ad alzare la voce. I repubblicani incalzano l’esecutivo per esaltarne le contraddizioni. I democratici, dal canto loro, sono tradizionalmente più falchi dei repubblicani in politica estera e questa volta hanno anche precise ragioni elettorali per tenere alta la tensione. Gli americani di origine polacca e ucraina sono parecchi milioni e votano tradizionalmente democratico. A Chicago, il feudo di Obama, i polacchi sono particolarmente numerosi e non è un caso che il senatore dell’Illinois Durbin, obamiano ortodosso, spinga il suo capo ad alzare il tiro contro la Russia. Il mondo, insomma, non è bello come appare. Grazie a questo, in cambio, avremo finalmente un euro più debole e una Germania più flessibile. Approfittiamone.